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Cronache da Dinterbild. Intervista a Peppe Millanta

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Cronache da Dinterbild è il prequel e allo stesso tempo il sequel del romanzo precedente Vinpeel degli orizzonti, del 2017, sempre per Neo edizioni. L’impressione è che la scrittura sia un viaggio lungo un ideale anello di Moebius e le storie dei personaggi ambiscano a farsi protesi della nostra stessa presenza, di noi che stiamo leggendo il romanzo, ora. Le Cronache nascono e si sviluppano più per un desiderio altrui che per quello dell’autore stesso, che anzi ha un po’ resistito nel completare questa duologia: e che la narrazione si rivolga a un ascolto per l’altro più che a un autocompiacimento di sé è un dato di fatto lungo tutto il tragitto fantasmagorico che alterna storie a conchiglie. La scrittura, infatti, è un lungo desiderio che quasi non si realizza mai a scapito di quel godimento minimo che accade, forse, solo alla fine e non durante la stesura dell’opera che risulta essere luogo di esplorazione e scoperta. La scrittura di Millanta è marina, profonda e fresca, con l’andamento di un’incisione di Escher pur nella semplicità di una favola che scava, però, nell’esistenza. Profondità. La scrittura di Peppe Millanta è il gioco di una narrazione orale che vuole restare tale e non censurarsi solo per calcolo: in questo senso la postura dello scrittore è quella propria del giocatore, dell’acrobata, che vuol donare a chi legge un lungo attimo di serenità e gioia creativa…

Gianluca Garrapa

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Genesi e desiderio del tuo libro.

La genesi è stata durante un viaggio in camper fatto con l’editore, Francesco Coscioni. Eravamo andati a un festival sul lago di Garda, e durante una serata abbiamo ragionato sul materiale che era rimasto fuori da Vinpeel degli orizzonti (nello specifico, alcuni dei passati dei personaggi). Ammetto di aver fatto un po’ di resistenza, mi sembrava che Vinpeel in qualche modo andasse bene così, e forse avevo anche paura di fossilizzarmi su un’unica storia, un unico mondo, un’unica voce. Alla fine però Francesco è stato convincente. Il patto era quello di non fare una semplice appendice, ma un libro con una dignità autonoma. Ne è uscito questo sprequel, un po’ sequel un po’ prequel, che contiene i passati dei personaggi e il continuo del romanzo. Insieme vanno a formare una sorta di duologia: se Vinpeel degli orizzonti compone l’andata, Cronache da Dinterbild ne è il ritorno.

Quando scrivi, godi?

No, affatto. Al massimo ho piccoli momenti di “esaltazione” se riesco a risolvere un problema, o a rendere più fluido un passaggio, ma in genere dura poco perché il problema successivo è dietro l’angolo. Dorothy Parker diceva “Odio scrivere, amo aver scritto”. Anche a me succede un po’ così. Durante la scrittura diciamo che ho le emozioni compromesse. Se non fossi me mi esilierei in un posto lontano. Infatti mi assento totalmente, ho un sacco di nevrosi, e la storia diventa totalizzante nei miei pensieri. Il momento della scrittura è quindi un periodo ostico. Ha le stesse caratteristiche di un viaggio di esplorazione: paura dell’ignoto, nessuno che può aiutarti, nessuna esperienza pregressa a orientarti, euforia per ogni nuova scoperta, delusione per le false piste. Però alla fine c’è sempre soddisfazione: non per il libro in sé (ammetto che non mi sono mai riletto) ma proprio per l’esperienza che ho vissuto, da cui esco sempre arricchito.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?

Sicuramente l’epilogo di Cronache da Dinterbild. Ci abbiamo ragionato a lungo. Condensare in poche pagine il contenuto dei due libri, trovare una sintesi, creare una cornice credibile a quel mondo fantastico, capace di lavorare il più possibile come una carezza. Sono state anche pagine di commiato da questo mondo che volente o nolente, ho abitato a lungo. Ma credo sia stato un buon modo per dirsi “ciao”, e spero sia lo stesso per i lettori.

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Spero un racconto orale. Uno di quelli che le persone si raccontano per stare insieme. Il tempo passato a narrarci storie è un momento estremamente intimo, antico, capace ancora oggi di fare comunità, di farci sentire parte di un qualcosa di più grande. E quel qualcosa non è altro che un grumo di vite che si pone le stesse domande da sempre: chi siamo, da dove veniamo, dove andremo. Le stesse domande da sempre, e in mezzo miliardi di storie che hanno tentato di disvelare almeno un lembo di questo meraviglioso mistero che è la vita. Credo che l’aspirazione di qualunque persona che scrive sia il racconto orale, perché quando una storia è tramandata oralmente, significa che è una storia che sa fare comunità, perché tenta di raccontare la vita.

Che rapporto hai con la censura?

In questo periodo storico temo molto più l’autocensura, più sottile e difficile da estirpare, perché invisibile. Una cultura che si autocensura è una cultura che sta spirando, perché ha perso ogni slancio vitalistico, incapace di combattere.

Il problema è che oggi non ci si autocensura per paura (cosa che potrei anche in fondo comprendere) ma per calcolo, per arrivismo, per opportunità, per andare dietro al più forte di turno. Questo credo che sia la cosa più pericolosa del nostro tempo.

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Credo sia più che altro una postura, un modo di stare al mondo. Nel mio caso sicuramente non è un modo di contestare, anche se mi piace chi con le sue storie riesce a farlo, cambiando, anche se di poco, il mondo che lo circonda. Mi sono formato su autori così, penso a Silone, a Steinbeck, ma purtroppo non è, almeno per il momento, nelle mie corde. Credo che l’obiettivo della vita sia essere in qualche modo sereni, felici, e che l’arte abbia il compito di farci andare lì. Mi impegno perciò, nel mio piccolo, per scrivere storie che vadano in questa direzione, senza voler fare sconti.

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