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Dario Voltolini. Il giardino degli aranci

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Mentre leggevo Il giardino degli aranci, il nuovo, splendido libro di Dario Voltolini, mi tornavano di continuo in mente alcuni versi di una poesia di Valerio Magrelli. La poesia si chiama Adolescenza, si trova in Exfanzia (Einaudi, 2022), e ad un certo punto, riferendosi ai giovani maschi, parla di “sgomenti mutanti gettati/nella bufera del sesso”. E poi dopo, in chiusura, “alle femmine, ai maschi,/la dura sorte dei lupi mannari”. Sono parole piene di affetto, di tenerezza, nei confronti di una stagione della vita fatta di rapide metamorfosi e scoperte che sono insieme belle e spaventose. Ma sono soprattutto parole che necessariamente vengono da chi quella stagione la guarda da lontano, da un punto dell’esistenza in cui tutto (o quasi tutto) si è compiuto. Sono espressione, insomma, di una prospettiva nel tempo.

Mi pare che il testo di Voltolini, edito da La nave di Teseo, si collochi in una prospettiva simile, ne intercetti un identico sentire. La storia che racconta è di una semplicità e bellezza sconcertanti, come di sconcertante semplicità e bellezza è la scrittura che la sostiene. Nino Nino, cinquantenne, architetto romano, ha appuntamento con Luciana, una donna che è stata importante per lui quando erano ragazzi, ha rappresentato in qualche modo una svolta nel suo apprendistato di adolescente. Non si vedevano dai tempi del liceo, poi appena pochi giorni prima si sono incontrati per caso all’Ikea e da lì è nato questo secondo incontro, programmato, desiderato. Il tragitto fino al giardino degli aranci cui allude il titolo diventa l’occasione per una rievocazione di tutte le donne prima di Luciana.

La storia contenuta nel libro, a dirla stretta, è tutta qui. Gli attimi che precedono l’incontro con Luciana sono intervallati da capitoli dedicati ad altre figure femminili, ognuna presente in un dato momento della vita di Nino Nino. L’arco coperto dal racconto va dai primi turbamenti di bambino fino al cuore dell’adolescenza, alla figura di Luciana, appunto, che si configura per Nino Nino come qualcosa di diverso, l’approdo ad un sentimento più complesso e strutturato, indirizzato improvvisamente verso un’unica persona. Difatti, fino a quel momento, la scoperta della propria sessualità Nino Nino l’aveva vissuta come una lunga corsa, affannosa, rivolta verso il sesso femminile tutto – e di passaggio, anche al sesso maschile – sperimentando via via nuovi sconquassi interiori che potevano occupare lo spazio di pochi giorni o di intere stagioni. Si trattava, dunque, di uno sguardo totale, che non aveva ancora trovato, per così dire, un bersaglio definitivo. O magari anche sì, un bersaglio c’era, e d’altronde ogni tappa è segnata dal nome di una donna particolare (Ilaria, Sophie, Samantha, Filippa ecc.), ma si trattava per lo più di sensazioni fisiche, vaghe. Non era ancora, per dirlo in modo brutale, amore.

Quella messa in scena da Voltolini è la dimensione più animale dello scoprirsi. I corpi Nino Nino non solo li guarda, ma li annusa, li tocca, li assaggia. È un esercizio sensuale e tenero allo stesso tempo. Muscoli, tendini, ossa, cartilagini compongono una sorta di paesaggio corporeo in cui Nino Nino si perde, tentando di capirne, di prenderne più che può. Luciana, precipitando nella sua vita, sposta questo ricerca da una dimensione puramente fisica a un qualcosa di più interiore, un tremore del cuore. E difatti lei, agli occhi di Nino Nino, assume un carattere quasi angelico, la vede sempre circonfusa di una luce divina: un essere di un altro mondo, un miracolo vivente. Qui Voltolini pare aver preso a modello, con simpatia, i poeti stilnovisti. È un modo, credo, di guardare con tenerezza a quell’amore totalizzante di cui si è capaci da adolescenti. Un amore per Nino Nino mai consumato, costruito su rapide incursioni nell’ora di ricreazione a scuola: lui corre da lei, la tempesta di parole, le lascia in regalo disegni, poi scappa via. Non si chiede nemmeno se quell’amore sia in qualche modo ricambiato. Lei poi d’un tratto si fidanza con un altro ragazzo, Attilio, poi scompare. Il tempo passa, e per Nino Nino quell’angolo della vita rimarrà un mistero. Almeno fino all’incontro da cui prende le mosse il racconto. E dunque ora, finalmente, potrà sapere, chiedere tutto quello che si è tenuto dentro per tanti anni.

Il finale ha qualcosa del meraviglioso congedo di Giulietta Masina nell’ultima scena de Le notti di Cabiria. Lo sguardo dritto in camera, un breve cenno col capo, a salutare il regista e l’osservatore. Un modo per smascherare, sia pure per un attimo, la finzione del cinema, ma più in generale la finzione tutta del raccontare storie. Il giardino degli aranci si chiude in una maniera simile, con la voce dell’autore che irrompe prepotente nel testo – succedeva già in altri punti, a dire il vero, ma qui in una maniera più scoperta, più vistosa -, e chiede attenzione, in certo modo saluta Nino Nino, saluta il lettore, lo accompagna fuori dalla rappresentazione.

Il giardino degli aranci è un libro esile, densissimo, che alla bellezza di una storia universale unisce il piacere di ritrovare quel gentile miracolo di pulizia e delicatezza che è (è sempre stata) la scrittura di Dario Voltolini.

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Dario Voltolini, Il giardino degli aranci, La nave di Teseo, 2022, 128 pagine, 14 euro

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