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David Foster Wallace, Il Re è pallido

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David Foster Wallace è un classico autore da esibire: più commentato che letto, più osannato che amato, è un fenomeno che dice molto sull’attuale situazione della letteratura giovane non solo americana e, soprattutto, sulla misera condizione nella quale sono obbligati a barcamenarsi lettori e critici. E’ un mondo senza memoria il nostro: e fa bene Wallace ogni volta a ricordarcelo riproponendo, come nuove, idee che con un eufemismo si potrebbero definire obsolete. Sempre rinchiuso tra le gabbie da definizione, passando agevolmente dall’essere il “portavoce di una rinnovata metanarrativa” ad “ultimo esponente del postmoderno” sino a “punta di diamante dell’avant pop più estremo” e “geniale pittore dell’ipermoderno”, solo per citare i giudizi più moderati,  Wallace non è altro che un prodotto, un logo da esportazione sinonimo di una qualità narrativa più ventilata che effettiva, di una ricerca più vicina al marketing intellettivo che all’intelletto. Chiaramente pace all’anima sua, ma possibile che ci vessi anche da defunto? E poi non era defunto da sempre? Come scrittore, intendo. Come uomo non lo conosco, ma temo che pochi dei suoi grandi amici scrittori e critici e “tradittori” (tradurre è sempre un pochino tradire) l’abbiano conosciuto davvero perché magari al posto di incensarlo avrebbero potuto dargli una mano ad uscire dal tunnel di se stesso.
La prosa di Wallace è  sempre siderale, sempre autoreferenziale, sicuramente sempre noiosa: leggendo il saggio E unibus pluram (inserito nella raccolta Tennis, tv, trigonometria, tornado, pubblicata da minimum fax) viene quasi da pensare che Wallace prenda in giro il lettore rimarcando la sua distanza proprio dall’autoreferenzialità.
In Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, invece, dietro la maschera di “scrittore difficile” – nient’altro che una copia sterile e mal riuscita del peggiore Barthes- si vuole vedere l’esperimento di “un racconto che usa le tecniche alla metafiction per operare una critica feroce alla metafiction stessa” perché, per Wallace, la metafiction ha raggiunto ormai “un rassicurante status istituzionale”. E allora? Forse esiste ancora qualcosa che non sia diventato istituzionale? Forse bisogna leggere Wallace per capire che “la cultura di massa è la grande ninna nanna che culla gli Stati Uniti d’America col suo affettato la la la”? Che “la realtà diventerà fiction che diventerà realtà” è forse una scoperta? Bisogna leggere Wallace per capirlo? Non basta guardare fuori dalla finestra (windows!) o, al limite della fiction, leggere uno Shopenhauer di due secoli fa per capire che “la vita è una tragedia recitata da commedia”? Forse il filosofo tedesco aveva bisogno delle coordinate morali dettate dalle sit com a stelle e strisce o delle pirotecniche trovate di Wallace? La realtà è che il più delle volte David Foster Wallace è di un tedio e di una scontatezza intellettuale che sconvolge e che tutte le sue teorie si potrebbero riassumere in dieci pagine: una di testo e nove di citazioni delle fonti.
Infinite Jest , ad esempio, è il classico libro che paralizza la critica e spiazza il lettore: i recensori, impallidendo davanti alle mille e passa pagine del romanzo, hanno preferito incensarlo (evidentemente senza leggerlo) e seguire ciecamente quegli intellettuali americani, soprattutto la lobby underground capitanata da Larry McCafferry&Co, che considerano questo libro come un capolavoro di originalità; il lettore, invece, impallidisce perché, non solo a libro chiuso, si rende conto di essere stato preso in giro, di trovarsi di fronte ad una lettura banale, dispendiosa e soprattutto inutile.
Infinite Jest non è altro che una sorta di blob cartaceo a bobina impazzita dove di originale non c’è proprio nulla, anzi: è una sorta di remix usurato che non cita nemmeno le fonti e che si vuole spacciare come esempio di “nuova frontiera della metanarrativa”.
Dell’idea chiave di tutto il libro – la denuncia di una società ormai cancrenizzata dalla “metastasi del guardare”- , ad esempio, ne parlava già nel 1800 (ma è solo il primo dei tanti) un certo William Wordsworth (d)enunciando in versi profetici la “tirannia dell’occhio corporeo”.
Dell’altra idea guida – i pericoli di una società che ha il suo unico credo nel divertimento- ne hanno invece scritto in modo sicuramente più incisivo Aldous Huxley nel romanzo Il mondo nuovo ( 1932) e Neil Postman nel saggio capolavoro Divertirsi da morire (1982).
Che dire poi di quella che Wallace definisce “la propria polifonia linguistica che rappresenta l’impazzimento della società”?
Prima di lui (sempre qualche anno prima) ci erano già arrivati il Robbe-Grillet di Progetto per una rivoluzione a New York (1970) e persino l’Andy Warhol di From A to B and back again (tradotto in italiano con il titolo A).
E ancora: l’idea di una società dominata dalla pubblicità non è forse mutuata da  I mercanti dello spazio di Fredrick Pohl e C.M. Kornbluth (1953)? Della merce “imbevuta di una traccia utopica” non ne aveva forse già parlato Walter Benjamin?
Che dire, infine, delle imbarazzanti somiglianze con molti passaggi de Le perizie di William Gaddis (1955), del Limbo di Bernard Wolfe (1952) o di Uno zoo lungo la strada di Tom Robbins (1971)?
Più che un “geniale pittore dell’ipermoderno” Wallace  appare così: un abile miniatuirista, un furbo riciclatore capace di mettere la testa di lettori e critici in centrifuga. Un “radical chic”, scampato agli anni ’70, e inghiottito da quell’idrovora ipno-televisiva che ha ridotto la carta in una succursale di pixel catodici. Si possono cambiare le pagine certo, ma non canale: le sue frequenze sono sempre le stesse. Così potenti da incantare il mercato editoriale. Così basse da incatenare alla noia del già (a) letto.

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