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Domani

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 C’è un senso etimologico nel vocabolo “domani” che si è perso completamente: il principio del giorno. Con il termine “dimane” si indicava infatti l’inizio di ogni giorno, di quello in corso che si stava per svolgere “nel giorno di poi”, nel dimani.

Oggi abbiamo rinunciato a definire questo tempo circoscritto nella giornata, e rimandiamo al giorno seguente quel significato: domani, appunto. E normalmente usiamo l’indicativo e non il futuro, come se già lo stessimo facendo.

Domani me ne occupo.

Domani mi alleno.

Domani lo chiamo.

Domani ci provo.

Abbiamo delegato al futuro ogni questione dell’oggi, spesso riponendo persino speranze imponderabili che prevediamo con un verbo coniugato nuovamente all’indicativo invece che al congiuntivo…

Domani, se non piove.

Domani, se non ho altro da fare.

Domani… se esco per tempo.

Poi ci sono le promesse o presunte tali, quelle che iniziano con “da”: da domani mi metto a dieta, da domani smetto di fumare, da domani si cambia.

Ecco, le promesse presuppongono non solo un domani, ma molti altri, sino a un tempo indefinito.

Il mio amico Massimiliano aveva diciassette anni quando decise di fare qualcosa il giorno dopo. Avrebbe potuto porre dei limiti al suo intento, magari mettendo un vincolo di casualità anche all’indicativo, tipo “se è nuvolo” oppure rinviando semplicemente quell’azione a domani e a domani ancora, invece scelse di fare una promessa: da domani muoio.

Si uccise in garage, seduto all’interno di una Renault 18, ascoltando una cassetta dei Dire Straits, con in bocca una manichetta di gomma, saldata con il nastro adesivo al tubo di scappamento dell’auto. Ho sempre voluto credere che le sue ultime note di vita fossero quelle di Sultan of Swing… e poi, Massimiliano ha iniziato a mantenere la sua promessa: morire per ogni domani.

E ti ritrovi in quel domani che diventa oggi e non puoi fare altro che rispettare la sua scelta, senza più l’ostacolo dell’attesa, l’eventualità del rinvio o il rammarico del tempo perso. Il tempo…

Il tempo!

Il tempo è una band che suona Dixieland e spesso ripete gli stessi pezzi. Il chitarrista non va mai al bancone a chiedere una birra o un whisky, aspetta che glielo porti la ragazza bionda: la cameriera che serve ai tavoli le coppe gasate e raccoglie gli sguardi senza fiato.

Le due cornette si guardano mentre suonano, glissano le note basse verso l’alto, e accompagnano le frenate dei suoni con la testa, su e giù, come se sopra il palco ci fosse un cielo nero da scalare mentre sotto i loro defunti vestiti di blue.

Il clarinetto spesso si distrae, ma sa improvvisare, e canta rauco, per dare un senso al seno della barista, ai soldi che ci infila dentro e al sigaro spento dell’ubriaco.

Il tempo è una band che suona Dixieland, con il tamburo portato a tracolla con il peso del ritmo, il contrabasso grave appeso a una gruccia nell’armadio di un Dio con le toppe sui gomiti e il sax nascosto tra gli argenti di famiglia più lucidi e splendenti.

Il tempo è una band creola che suona l’incanto della povertà, ma alla signora con la Louis Vuitton non interessa, si nasconde dietro un paio di guanti e un rossetto da puttana che la fa sentire sexy, e il marito si difende dalla prostata ridendo con misura, sapendo con certezza dov’è il bagno, conoscendo i tempi dell’alcol, delle mance e del ragtime.

Il tempo è una band che suona per sé Honky Tonk: evocando il passato, interpretando, creando suggestioni; il tempo è Massimiliano che ancora vedo più grande di me, come se di anni ne avesse cinquantadue.

Il tempo è il ragazzo che supplica all’angolo per una dose, l’uomo che ha vinto in tribunale e l’altro che ha perso i figli, quello che suona il piano e l’altro che va via piano, quello che passa cantando e l’altro che canta passando.

E tutti siamo Sultani: abbiamo lo swing, i giusti movimenti, gli occhi chiusi che sognano il bello, i denti stretti sino a ieri, l’applauso di oggi e il bicchiere vuoto.

Buonanotte, e ora di tornare a casa. A domani. A domani Massimiliano.

Angelo Orazio Pregoni

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