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Elena Panzera anteprima. I salmoni aspettano agosto

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Elena Panzera, giovane scrittrice toscana, copywriter e traduttrice scrive di letteratura e politica su Minima&moralia , Flanerí, Altri Animali e altre riviste online. Nel 2022 è tra i fondatori di Linoleum, progetto letterario dedicato alla narrativa breve.

Il 15 settembre esce in libreria il suo primo libro I salmoni aspettano agosto, (Giulio Perrone Editore 2023, pp. 160, € 16). Si tratta di una lettera di Michele alla gemella Francesca, scritta con un linguaggio che equilibra silenzi e frasi musicali.

Michele tiene un diario su consiglio della madre per evitare che la sua mente si inceppi. Solitamente scrive di notte, quando sua sorella è uscita e gli manca di più. In questo scrivere profondo e intenso si immerge risalendo la corrente come un salmone.

Il linguaggio è diretto e continuo e i corsivi definiscono il dialogo: “Palmira si sfiniva, gli urlava ci farai diventare tutti sordi, Martina dalla camera sbraitava io starei studiando!”.

Traspare l’ansia poetica del fratello che attende la sorella che deve rientrare a casa: “Vieni, Francesca, ritorna. Non senti il rumore del mattino che ti porto, la pineta coperta di rugiada, la notte che finisce?”.

Emerge un sentimento di solitudine profonda: “È dura quando è così vuoto, dentro”. Oppure: “La gente pensa che parli da solo, ma si sbaglia. Parlo a me, dall’altra parte, e se mi sento vuol dire che sono ancora vivo.”

I due fratelli, legatissimi, affronteranno per la prima volta il distacco quando, prima del diploma di pianoforte al Conservatorio, Francesca riceverà una proposta di matrimonio.

L’io narrante riscopre le radici dei sentimenti tra due gemelli uniti dall’amore per il piano. Ed è così che si accorge di esistere.

Carlo Tortarolo

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Primo movimento

Venerdì sera. Dopo cena

Il fatto è che quando non sei a casa mi sembra di non esistere, come adesso.

La mamma dice che quando mi capitano cose di questo genere devo scriverle qui, oppure fare gli esercizi. Mi ha regalato questo diario con la copertina nera e le pagine beige, ha detto è il tuo migliore amico, devi usarlo il più spesso possibile. Come se lei avesse mai preso la sua amica Palmira, la nostra vicina di casa, e si fosse messa a scriverle addosso.

In ogni caso, se proprio devo scriverlo, lo scrivo a te, altrimenti mi sembrerebbe di prendere tutte le mie parole e buttarle nel cestino, per nessuno.

Gli esercizi li ho fatti prima di cena, due volte di seguito. Piegamenti sulle braccia, salto della corda, addominali, pesi. C’è una tabella attaccata alla parete dentro una busta di plastica, ma ormai li conosco tutti a memoria, non la guardo più (non è vero, la guardo lo stesso, visto che c’è). La mamma dice che mi fa bene, serve a liberare le energie in eccesso, ma a me sembra solo che il mio corpo stia diventando sempre più duro, e non mi piace. Il professor Perrotti ha detto alla mamma che un’attività fisica così intensa è nociva per un pianista. Lo sforzo potrebbe essere deleterio per l’elasticità delle dita e del polso, è un’assurdità rischiare la carriera per farsi i muscoli. non penserà mica che possa diventare un atleta a ventitré anni? Se proprio deve fare sport, dice, che vada a nuotare. Ma la mamma non gli dà retta. Secondo lei al mio livello un po’ di movimento non può fare alcun male. Lui insegnerà pure al conservatorio, dice, ma anch’io sono una musicista. So di cosa parlo. E in ogni caso non si fida a mandarmi in piscina da solo.

Così ultimamente, mentre suono, mi capita di sentire questo muscolo nuovo che mi sfiora le costole e ho quasi l’impressione che sia il bicipite di un altro. Con tutta questa massa, poi, occupo più spazio sul panchetto e tu per forza di cose mi stai più lontana quando suoniamo insieme, o meglio, sei più lontana dalle mie ossa. Oltretutto ho paura di farti male, come quand’eravamo piccoli e ti abbracciavo. Tu dicevi fuochino quando stavo stringendo troppo e acqua quando era okay.

Il tuo corpo è morbido, di questo sono sicuro. Lo so da sempre, da quando la mamma riempiva la tinozza dei panni dentro il vano della doccia e ci metteva lì dentro a fare il bagno, incastrati, coperti di schiuma luccicante. Anche i tuoi capelli sono morbidi, un bosco fitto di sole che ti protegge la schiena. Giocavamo al parrucchiere e io ti facevo la treccia mentre tu la facevi alla tua bambola, quella con i capelli biondi come i nostri a cui dicevi che era la nostra terza gemella. Restavamo a mollo così a lungo che quando la mamma veniva a tirarci fuori avevamo le mani vizze, grinzose, e tu dicevi è passato troppo tempo, mamma, ormai siamo vecchi.

Qualche anno dopo papà ha fatto costruire la vasca e noi ci siamo spostati lì. Un giorno però è entrato in bagno e si è coperto gli occhi come se avesse visto qualcosa di spaventoso, invece c’eravamo soltanto noi, i nostri quindici anni distesi nella vasca bollente dove tu rovesciavi il sale alla lavanda. Dietro la porta lo abbiamo sentito chiamare la mamma e bisbigliare tutto agitato, poi sbattere la porta. Da allora non abbiamo più fatto il bagno insieme, ma nemmeno questo è bastato a calmare papà, a fargli passare più tempo a casa come accadeva prima che i nostri corpi si allungassero senza smettere di somigliarsi, negli anni appiccicosi delle settimane bianche, di lui che faceva il rappresentante di classe dei genitori e scivolava per le stanze di notte per scattarci foto che poi sviluppavamo nella camera oscura improvvisata in cucina. Adesso lavora quasi sempre in giro per il mondo, telefona, migra come gli uccelli.

Stasera, in ogni caso, sei uscita alle diciannove e ventisei minuti e mi hai dato quattro baci: sulle guance, sulla fronte e sopra la testa. Quattro baci significa che tornerai tardi. Uno solo è il tempo di un gelato, due è un pomeriggio, massimo fino alle sette; quattro vuol dire che non sai nemmeno tu a che ora torni e allora per me sarà una serata molto difficile, perché non so fino a che ora mi toccherà sopportare questo fatto di non esistere.

Che fai stasera?, mi hai chiesto.

Avevi una camicetta aderente e un paio di quei pantaloni a palazzo che ti metti ultimamente. Inoltre avevi i tuoi occhi, sempre grandi e spazzati di vento arancione, due pianeti gassosi pieni di lune. Ti ho risposto che eri bella come la nike di Samotracia che abbiamo visto al Louvre l’ultimo anno di liceo con mamma e papà, ma tu ti sei messa a ridere. Hai detto che dovevo essermi confuso, perché la nike non ha la testa. non mi ero confuso, però. La testa è la tua e non potrebbe essere quella d’altri. La tua è la testa più bella del mondo e quel pomeriggio al Louvre è proprio lei, la tua testa, che ho visto. Papà ci camminava dietro un po’ a distanza, sfogliando il fascicolo delle opere. Ogni tanto ci dava qualche informazione pescata dalle didascalie e poi si allontanava di nuovo. Sembrava volesse osservarci a distanza per inquadrarci meglio, studiarci, come faceva con certi quadri che si metteva a fissare con le tibie appoggiate al recinto del piedistallo, la faccia protesa in avanti e le labbra che in silenzio facevano bah.

Davanti alla nike però si è fatto largo tra la folla e ci ha raggiunto, chinandosi sul mio orecchio.

Nun la tene’ sempre pe’ mano, Miche’. Lasciala perde ’n po’. Tu hai stretto più forte la mia mano e gli hai detto lascialo in pace tu, ed è allora che la tua testa è apparsa lì, sopra la tunica e le ali, la stessa che poco fa è salita in macchina accanto alla testa di Alberto, voltandosi a osservarmi mentre ti guardavo andar via.

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