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Giuseppe Caputo. Un mondo orfano

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Si inizia nel buio. Corpi vicini, sudati, si vedono solo i denti, sorridono questi corpi, sembrano in attesa di una rivelazione, nel mentre si strusciano, ansimano, alcuni si svestono, nel buio, sempre nel buio, in attesa che la musica inizi, che la luna scenda su di loro, proietti una luce, artificiale o naturale, a questi corpi poco importa. Purché sia luce.

Inizia con un figlio e un padre che si amano, il romanzo di Caputo, parrebbe ricordare quella Strada del McCarthy più conosciuto. Anche qui ci sono zone buie, interi quartieri, pezzi di un mondo devitalizzato che sembra spegnersi ogni giorno un poco di più, anche qui ci sono cannibali pronti ad assalire al primo segno di cedimento, anche in queste pagine la minaccia giace latente, non fosse che in questa storia i ruoli sono invertiti: non è il padre a doversi prendere cura di tutto, non è lui a dover lottare per sopravvivere. Il “papi” di questo mondo orfano è una figura che sembra volersi spegnere già nelle prime pagine, farsi da parte, ridursi a sola ombra. I soldi sono finiti e con essi la speranza di costruire qualcosa di meglio per l’unica persona importante. È un padre che vive di chiaroscuri, come quella luce che va e viene lungo le strade, in quelle notti che non conoscono albe, assetate di tributi, di carne, pulsioni.

C’è un mondo esterno e uno interno. Una casa triste, con le sue pareti bianche che cadono a pezzi e un padre che prende in mano un pastello e inizia a dipingere una mucca in cucina. La casa resta un rifugio, un porto sicuro che a volte puzza di loculo altre volte, invece, nelle stanze aleggia un’aria infantile che rimanda al tempo dell’innocenza. Il padre perde il suo ruolo di tutore, fragile, impotente davanti al decadimento come il padre descritto nelle pagine di Animale (Giuseppe Nibali – Italo Svevo Edizioni). È un uomo buono, semplice, che regredisce senza smettere di sorridere al proprio figlio, rincuorandolo con parole dolci e aneddoti sulle mariposa, farfalle che rischiano di bruciarsi attirate dal calore delle fiamme e che, nonostante tutto, non si arrendono, continuando a sbattere e gonfiare le loro ali, moltiplicandosi, amandosi, senza smettere di danzare.

La realtà fuori è impazzita, la notte bisogna chiudersi a chiave, barricare le finestre, non aprire a nessuno, oppure ribellarsi, alzare la testa, obbligarsi a prender parte a quel luna park apocalittico assecondando le curiosità e gli stimoli di un corpo in procinto di schiudersi. In questo il figlio, animo ingenuo e crisalide imberbe, diventa il punto di vista esploratore di un’infinita darkroom di corpi che si scelgono e si scartano alla velocità di un click.

Con un espediente narrativo, l’autore ci mette al cospetto di un app che si chiama Roulette e come tale funziona: due webcam e una chat in cui scambiarsi ordini e desideri, due video a mostrare il frutto delle richieste e una freccia pronta a passare nella stanza successiva. Il figlio prende parte al gioco, l’iniziale ingenuità svanisce nel giro di poche sessioni e il lettore, inizialmente smarrito, inizia a comprendere il pensiero del protagonista che ciclicamente prende parte alle performance assecondando, prostrandosi, scegliendo e scartando, riducendosi a una semplice richiesta da assecondare, carne da profanare, come quei corpi che giacciono straziati ai bordi della strada.

Nelle notti di Caputo si compiono massacri e si balla nudi in discoteche la cui musica sembra non esaurirsi mai e tutto accade con una spietata naturalezza che ammalia, distorce e stordisce, alterando la percezione di corpi e colori, deformando il tempo e lo spazio, ricoprendo il sudore, lo sperma e il sangue dei corpi martoriati con il lucore di una manciata di lustrini.

I personaggi del romanzo avanzano, come equilibristi, sul crinale tra realtà e metafora, lungo la sottile linea di confine che unisce il mondo reale alla fiaba, passando per l’incubo stroboscopico. È un mondo smarrito quello in cui ci accolgono le parole di Caputo, l’impressione è di doversi aggrappare con ogni mezzo al lirismo di una prosa che saltella a piedi nudi, aggraziata ma svampita, in una pista da ballo ricoperta di cocci di vetro. Ci sono pagine che feriscono e indignano, non si può restare impassibili davanti alla mattanza di quei corpi abusati, amputati, trasformati in giostre umane da una legione brutale immune a ogni istituzione.

In questa fiaba allucinata anche i nomi si perdono, padre e figlio restano tali, così come i “cattivi”, i “delinquenti”, i “maleducati” e in questa volontà di non nominare mai esplicitamente questi Boogieman, di lasciarli agire negli spazi vuoti tra i paragrafi, di relegarli a fugaci presenze, si riconosce forse la condanna maggiore da parte dell’autore: perché il male non necessità di definizione, mentre le persone importanti, quelle che al figlio restano accanto animando le notti e colmando gli sconforti, trovano in queste pagine gli spazi più luminosi e commoventi. L’ilarità di Ramòn-Ramona, Luna, le sue canzonette sconce e Olguita, con la sua borsetta sempre colma di pastiglie, ognuna indispensabile a placare un male immaginario che l’affligge, sono loro, le mariposa smarrite eppure euforiche, le uniche anime a meritare luce.

Con incredibile grazia, Giuseppe Caputo costruisce un romanzo/fiaba capace di emblematizzare le angosce di un mondo che non vuole arrendersi alla mercificazione dei corpi, alla violenza dei regimi, al desiderio di scappare quando le ombre si cibano di tutto l’ossigeno.

Se in precedenza, Pedro Lemebel ci ha insegnato a ballare delle nostre disgrazie forgiando corazze sulle lacrime, oggi Caputo ci commuove mostrandoci l’impresa di un padre che raccoglie da terra un cartoncino, lo trasforma in una stella e la consegna al proprio figlio chiamandolo “luce mia”, ricordandogli e ricordandoci, che l’affetto esiste.

Stefano Bonazzi

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In mondo orfano

Giuseppe Caputo

Alessandro Polidoro Editore

17,00 euro — 250 pagine

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