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Il Premio Strega è la felicità degli altri: andrebbe data a Noi

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Strega comanda color? Nel mio editoriale precedente ho indicato, prima del tempo, la cinquina del Premio Strega e la vincitrice, Teresa Ciabatti che, con un libro mediocre, senz’altro porterà a casa il Premio. Sono le logiche editoriali, dovrebbe vincere Emanuele Trevi con “Due vite” ma, sia per brevità che per taglio che ai lettori che fanno rimbalzare i vincitori dello Strega in vetta alle classifiche, è troppo raffinato, troppo breve, troppo letterario, troppo per la fascetta stregata, così ambita per le vendite più che, ormai, per il valore. Credo che Stefano Petrocchi, della Fondazione Bellonci, uomo e intellettuale che ammiro per cultura dovrebbe rivoluzionare il premio, dovrebbe cambiare “gli amici della domenica” che già dal nome non è richiamino a limpidità e trasparenza. Credo che Petrocchi abbia il coraggio di fare questo passo. È l’uomo giusto al posto giusto, un rivoluzionario con il freno a mano tirato. Noi crediamo in lui. Ci credono i lettori che meritano, in questi tempi, di ritrovarsi davvero ad una notte degli Oscar dei libri. Invece vince la narrativa da tinello, vince la narrativa ombelicale, la narrativa degli scalatorini dell’editoria che vivono sin dal loro esordio non per dare qualcosa ai lettori ma per aumentare il proprio potere. Una gestione manageriale dell’arte che è ammissibile se il libro vale: vale come “M” di Mussolini o “La scuola Cattolica” di Edoardo Albinati – due dei capolavori che meritano di entrare, insieme a Walter Siti, di entrare nei classici. Se non vale, come “La ferocia” di Nicola LaGioia (rimane ancora un mistero la sua frase del romanzo: “aveva più di trent’anni ma sicuramente meno di 25”. Che non è un gioco ma la sintesi perfetta della scrittura Sudoku di LaGioia.

Da lettore il mio dolore più grande è stato non trovare “Noi” di Paolo Di Stefano (Bompiani) che è un romanzo fondamentale, tra i più potenti degli ultimi quarant’anni, perché rappresenta un nuovo verismo: un verismo postmoderno che si fa epopea e epica della scrittura. Meriterebbe di giungere a tutti noi, il “Noi” di Paolo Di Stefano: a più lettori possibili. Meriterebbe, insieme a “La felicità degli altri” di Carmen Pellegrino (La Nave di Teseo), un ex aequo. Meriterebbero entrambi il Premio, seguiti da Emanuele Trevi; “Le ripetizioni” di Giulio Mozzi,  gran romanzo che ha spaventato i lettori per recensioni troppo pruriginose, mentre il romanzo, ci torneremo, è ben altro: è un Aldo Busi se Aldo Busi fosse davvero Aldo Busi con più eleganza e meno starnazzare e più letteratura. Anche il romanzo di Bajani, con “Il libro delle case” (Feltrinelli) merita di essere letto: un romanzo raffinato, ma vero; un romanzo labirintico come labirintica è la vita che (non) viviamo. Perché diamo tutto per scontato? Perché quando guardiamo le facciate delle case non immaginiamo mai la vita che si svolge dietro il cemento armato?

Perché “lo spazio abitato trascende sempre lo spazio geometrico”, come ha scritto Gaston Bachelard ne “La poetica dello spazio”. Bajani si è finalmente liberato del LaGioianismo e da solo ci consegna un romanzo che è perfezione di stile e che nell’io narrante declina umanamente il nostro noi che oggi nascondiamo come si nasconde un uomo oggi perché accusato subito di essere egoriferito e non ego-ri-ferito.

Ma il “Noi” di Paolo di Stefano è un’altra storia, ambientato tra la Sicilia del Ventennio e dello sbarco degli Alleati americani, una Palermo vivida di ricordi e profumi e la Milano degli anni ’60, del “boom economico” si svolge questo nuovo romanzo di Paolo Di Stefano: forse il suo migliore o decisamente il suo migliore.

Se già con i precedenti ci aveva dato prova di una capacità stilistica rigorosa e con molti passaggi poetici è in “Noi” che lo scrittore riesce davvero  a comporre una sinfonia del tempo apparentemente perduto.
Le sue parole sono abbracci di fame e di sete, sono lampi di ricordi venati di nostalgia ma raramente di tristezza.
“Noi” narrando quella che non è un’epopea ma un’epica familiare – con i suoi marosi, segreti spesso da nascondere persino a se stessi- è un romanzo sul ritrovamento, sulla trasparenza dei cuori come delle anime che sfiorano le labbra del lettore.
Perché è un romanzo da sussurrare, da leggere quasi a lume di candela in un silenzio ovattato che merita la grande letteratura.
Paolo Di Stefano è riuscito a trascrivere tutte le sensazioni di un protagonista, un uomo innamorato della letteratura, che durante tutta la propria esistenza cerca di ricostruire fili che sono come tele di ragno: potresti rimanerci prigioniero, ma è il “noi” del titolo a salvarci. Perché certe storie, che non vorremmo mai finire almeno sulla carta, appartengono a tutti noi.
Quello di Paolo Di Stefano è un verismo postmoderno: si respirano anche atmosfere di Verga ma senza quel senso di ineluttabilità del maestro.
Un romanzo come capita raramente di leggere: rimane impresso anche a libro chiuso e ti resta dentro come un pugno, come una carezza, come una smisurata preghiera: perché le peripezie del protagonista – specie nei suoi rapporti familiari e affettivi spesso burrascosi, spesso brutali ma sempre animati da un sentimento che non degrada mai nel sentimentalismo- sono anche le nostre. Quelle di ogni famiglia, perché non sempre “così è, se Vi pare”.
Scrive Di Stefano: “E’ la voce che mi insegue o sono io a inseguirla? Mi chiedo da tempo: chi è l’inseguito e chi è l’inseguitore? Forse è vero che c’è un inseguito che segue l’investitore. O il perseguitati è il persecutore”.
Lo scrittore riesce poi a creare una toponomastica emotiva non facile da ritrovare in altri libri: le strade diventano immagini, le vie sensazioni, le piazze sembra quasi di attraversarle.
E’ così per Milano con i suoi simboli e con i tanti richiami: a giornali e rotocalchi scomparsi, a film dimenticati, a luoghi che credevamo persi.
E così seguiamo il protagonista, dalla fanciullezza sino agli ottant’anni, in un altalenarsi di emozioni: alcune volte ci troviamo proprio di fianco a lui.
Come in un film sarebbe riduttivo: diciamo come nella vita.
In questo romanzo che ha il passo del memoir ma senza essere ombelicale ci troviamo a crescere mano nella mano: ci emozioniamo, ci arrabbiamo, trasecoliamo, siamo tutti lì, in prima linea, a scontare la vita di chi ha voluto avere un’esistenza non lontana dal coro, ma non da turista della vita.
Si sente una voce in tutto il romanzo ed è quella voce che manca alla maggior parte degli scrittori contemporanei: essere capaci di sfidare il tempo senza vendersi ai poteri del tempo.
Paolo Di Stefano ha scritto il suo miglior romanzo. Ed è un libro che era necessario, soprattutto di questi tempi, per comprendere veramente ciò che significa il titolo. Un “Noi” troppo spesso dimenticato da un egocentrismo che, alla fine, non ci porta da nessuna parte se non una deriva dei sentimenti. Ai rimpianti. A quello che avremmo potuto fare e che non abbiamo fatto. Ma non in queste pagine: lustre di inusitata bellezza. Rara, potente e catartica.

Gian Paolo Serino

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