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Il rumore è il messaggio. Intervista ad Andrea Inglese

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Andrea Inglese, Il rumore è il messaggio, dia•foria ed. con il supporto logistico di dreamBOOK editore.

Il rumore è il messaggio” di Andrea Inglese scrittore in versi e prosa e traduttore, raccoglie prose e versi e immagini ed è stato pubblicato dal coraggioso e pioneristico editore dia•foria di Viareggio con il supporto logistico di dreamBOOK e la prefazione di Chiara Portesine. “Il rumore è il messaggio” integra testi nuovi con materiali già esistenti in un solco che transita tra legge e desiderio ‘errando’ nel selvaggio mondo dell’odierna comunicazione standard che in teoria e in pratica annienta ogni altro tipo di messaggio che non sia quello «masticato, insapore, facile». L’operazione di Andrea Inglese è a tutti gli effetti un luogo di godimento per chi ha lo ha generato e per chi lo percorrerà leggendo (se sa leggere il nuovo nel noto). I testi diventano spesso situazioni concrete, la parola si fa cosa, il suono diventa grafico e l’installazione esplorativa del linguaggio scritto diventa performance della voce e del segno come in “Il messaggio è western”: il testo che stiamo leggendo potrebbe essere, in definitiva, un lavoro teatrale, rivolto però a attori e attrici pronti alla crudeltà, «al porno e all’ultraviolenza». Ma, si sa, in un’epoca di estrema omologazione e facilismo comunicazionale come la nostra, “Il rumore è il messaggio” potrebbe incorrere nell’opposto, nel silenzio, nella totale indifferenza di un uditorio disabituato ormai a una poesia che non sia quella di uccellini, tramonti e amorini, di lieta e rassicurante fruizione. “Il rumore è il messaggio” è un’opera e un atto polemico nei confronti della contemporaneità, un’azione di ricerca, desiderante e viscerale, un fiume controcorrente che non evoca vecchi stilemi di rottura ma cerca nuovi modimondi non ancora realizzati…

Gianluca Garrapa

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Genesi e desiderio del tuo libro. 

Il desiderio del mio libro me l’ha suscitato l’editore (e autore) Daniele Poletti. Daniele è un personaggio fuori dal comune. Gestisce praticamente da solo (anche se ha valid* complici) una casa editrice esigente, pionieristica e ambiziosissima, Diaforia con sede a Viareggio. Io già conoscevo lui, e i suoi libri belli e audaci. La bellezza dei libri in poesia è una cosa delicata, soprattutto in Italia. Qui da noi, il termine poesia evoca nella mente di parecchie persone (a volte anche gli editori, e i grafici che lavorano per loro) raccapriccianti immagini di tramonti, roseti, allodole e penne con calamai. Se ci si può mettere qualche attorcigliato stelo in stile primo novecento, son tutti contenti. Trovare quindi gente che fa libri di poesia attraverso un linguaggio grafico che ha almeno alle spalle l’esperienza del Bauhaus o del costruttivismo russo, è già un miracolo (si entra almeno negli anni Venti del secolo scorso, un grosso passo avanti!). Nel caso di Il rumore è il messaggio il libro che è venuto fuori, sul piano materiale e grafico, mi ha dato un godimento grandissimo. Quindi il desiderio che avevo di fare un libro per Diaforia è stato pienamente appagato. Ne è venuto fuori un libro curatissimo sul piano editoriale (non limito i complimenti, perché tutto ciò non dipende da me) e in più con uno stile grafico molto anni Settanta, un bianco e nero cattivo, che sarebbe senz’altro piaciuto a uno come Nanni Balestrini, che in quegli anni operava a tutto spiano nell’editoria. 

Comunque, ritorniamo alla domanda sull’origine del libro. C’è stato quindi questo invito di Daniele Poletti, e la mia idea di fare un libro adatto a Diaforia. Ma questo potrebbe far pensare che uno si sforza di adeguarsi a una linea editoriale, e che quindi tradisce qualche sorgiva autenticità. Ora io non pratico più l’ispirazione come metodo, perché l’ispirazione, checché se ne dica, soffre di uniformità. All’opposto dell’ispirazione, c’è ovviamente il lavoro a partire dalle contraintes, quelle rese celebri dall’OULIPO. Le contraintes sarebbero delle regole (di versificazione, ad esempio) che uno si dà prima di scrivere. Io mi situo in una zona intermedia tra questi due opposti (spontaneità lunare e artificialità diurna). Cerco di elaborare un programma tematico-figurativo che mi permetta di fare due cose: elaborare una serie di testi, e integrare questi testi nuovi, con del materiale già esistente, ma che ha affinità con la serie in questione. Ed è quello che è avvenuto con Il rumore è il messaggio, dove assieme a testi scritti nel corso degli ultimi due anni, ne sono entrati altri ben più vecchi, ma che cercavano una collocazione macrotestuale. Il programma tematico-figurativo (o concettuale, se si vuole) riguarda la maledizione odierna della perenne & buona comunicazione, che più di tutti ovviamente pesa su quelle anomalie del circuito comunicativo e letterario, costituite dai poeti, per di più di ricerca, sperimentali, d’esplorazione. Nel nostro mondo bisogna comunicare sempre, come dei pazzi, ma se quello che comunichiamo non è così tiepido, masticato, insapore, facile, ecc. ecc., da giungere subito e al più grande numero, scatta l’anatema: se la comunicazione non arriva chiara e piana, vuol dire che è stato commesso un errore gravissimo, imperdonabile, un errore comunicativo. Da questo punto di vista, Il rumore è il messaggio è un po’ una summa di errori comunicativi. (A partire dalla prefazione di Chiara Portesine, che è finita a inviluppare la copertina!)

Quando scrivi, godi?

Penso proprio di sì. Invecchiando ci si salva sublimando le bieche pulsioni carnali. Il meglio sarebbe: fornicare al massimo e sublimare al massimo. Ma ci si accontenta anche di uno sbilanciamento tra le due forme di spesa libidica. In ogni caso, quando non scrivo mi capita a volte di sentirmi l’ombra di un cane. Quando scrivo mai. Al massimo mi sento un cane, nei casi migliori un cane idrofobo.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?

Il testo che segue s’intitola Il messaggio è western ed è un testo abbastanza lungo (di cinque pagine). Non so se sia stato difficile scriverlo (ha subito varie fasi di elaborazione) né se sia importante, ma è un tipo di testo molto “esplorativo”, ossia non ne ho mai fatti di questo tipo. È un testo dove la distinzione prosa/verso salta completamente, ma nel senso che c’è uno e l’altro. Poi è un testo che sembra riattualizzare alcuni tratti della poesia concreta, ossia l’importanza della disposizione grafica. E poi è un testo tragi-comico. Infine è un testo basato sul concetto non tanto di montaggio, ma d’interferenza. Ci sono voci diverse, ma non come in un intreccio tra canto e controcanto. Qui ci sono collisioni e sovrapposizioni di voci. Quando l’ho visto su pagina, mi sembrava un tipico testo da lettura “visiva”. Ma poi ho cominciato a leggerlo alla presentazione, e funziona anche come un testo perfettamente performativo. 

« Il messaggio western è un messaggio d’orizzonte, un orizzonte vasto e arido (dove un tizio è generalmente maschio, generalmente sporco [ma bianco], generalmente stanco e cattivo) – è un messaggio-orizzonte perfettamente spianato e polveroso cavalli per via di tutti i cavalli, gli zoccoli dei cavalli soprattutto TROK TROK, e gli stivali, le suole degli stivali soprattutto, PULVIS ma anche formicai di formiche rosse  00 del miele (Myrmecocystus mexicanus) rientra le mucche, vaccaro! e la terra che sbriciola (ceneri di un defunto) sotto l’andirivieni delle cose, la terra che si solleva da terra e cade in pezzi, vola nel polverone ventoso del mess   pssssssss – come soffio – pssssss – come vento di sgonfiamento

La logica del messaggio western è che non succede nulla PELLECOTTA per ore, tutto è fermo nel fotogramma METTI A POSTO IL TUO CUORE, che è il solo messaggio METTI A POSTO western trasmissibile, IL TOMAHAWK il fotogramma piatto e fisso, nella luce infernale, METTI A POSTO nell’ustione delle piccole lucertole LA BISTECCA GIGANTE forse già morte, ferme come morte, schiacciate dal calore mortale dell’aria western. FAI IL MORTO SE NON SAI CHE FARE FAI IL MO – caecus pulvis

L’elemento temporale del messaggio western è denso   (SUCCEDE NULLA)    attraversandolo il messaggio può metterci un’immensa riserva di anni, e nel lungo frattempo, tra emissione e ricezione, tutto appare silenzioso nelle bocche (FAI IL MORTO), nelle teste SOLE A PICCO solo le mani, i cavalli, le labbra sono scosse da un tremito incessante.

VECCHIO CANUTO canitiem perfusam pulvere

VECCHIO DERELITTO (ex-ragazzo-vacca sbronzo)

STRAPAZZATO TREMENS (pellecotta sbronzo)

Nel messaggio western c’è molta gente che ha problemi – spesso pratici – da sbrogliare, di malaffare, c’è questa gente che spara in giro, che sputa per terra, che getta le lattine vuote nei cespugli, e qualcuno che ripete, “oggi mi sento a terra, come mi gira male” NEL VASTO VENTO e sono scaraventati fuori (dal saloon) PROBLEMI DI SALUTE (pellecotta con polmonite, ragazzo-vacca con cancrena (o sifilide)) quello che si sente a terra rimane atterrato, fedele al messaggio, e tutti gli altri via PIATTO ORIZZONTE su cavalli pezzati, su cani zoppi, su coyote e volpi grigie TROK TROK sul ghiottone, la lontra di fiume, l’opossum della Virginia, scantonano alla cieca, ma quello rimasto seduto con la tristezza dei suoi problemi MESSAGGIO LENTO completamente a terra MALORI, e quegli altri finiti sotto le pance dei cavalli, nei terrapieni, contro pietroni, con la testa imbestialita nelle pozzanghere di fango-sangue CIOK CIOK.

(…) »

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Un pezzo teatrale. Un lungo pezzo teatrale, in cui ad ogni sezione del libro corrisponderebbe un atto. Quindi alcuni atti molto brevi e altri più lunghi, in successione. Senza un ritmo regolare, così come accade nel testo. Anzi, sarebbe ora che il teatro italiano si rinnovasse, e non solo nelle forme, ma anche nel rapporto testo e azione teatrale. Quindi invito registi e drammaturghi a darsi da fare, per verificare e confermare questa mia affermazione. Il rumore è il messaggio è un testo drammaturgico, è un dramma contemporaneo, e ci vogliono attori e attrici davvero in gamba, davvero pronti a tutto. Anche al porno e all’ultraviolenza. 

Che rapporto hai con la censura?

L’unica censura che potrebbe avere senso, in scritture come la mia, sarebbe quella che mi spingesse a ricercare, pur nel mio genere minore, una qualche forma di consenso. Una censura d’ordine estetico, formale. Ma io mi dico: è già un libro di poesia contemporanea. Ho già perso il 98% dell’uditorio, del pubblico potenziale, perché mai lottare per tenersi buono quel 2% rimanente? Non ha senso. Andiamo quindi a testa bassa. Anzi, come dice Cortázar, tendiamo l’arco all’estremo, e vediamo che succede, vediamo cosa salta fuori, vediamo cosa si scopre. Certo, poi mi pento. Poi piagnucolo nel mio angolo perché mi è rimasto lo 0,2% dei lettori potenziali. Ma sono lacrime di coccodrillo. Mentre tendevo l’arco, me la godevo un casino.

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Un mestiere purtroppo no. Se l’Italia fosse un paese più serio, ossia tenesse alla qualità (e all’indipendenza) del suo giornalismo culturale, e se pagasse come si deve il lavoro culturale, come mestiere potrei scrivere su libri, mostre, cinema, ecc. per un largo pubblico, e poi continuare a fare le mie nefandezze poetiche senza tornaconti possibili. Da quando pubblico libri di poesia, collaboro a riviste, blog e quotidiani. L’unica testata da cui sono stato pagato adeguatamente è stata Alfabeta2, diretta da Nanni Balestrini. Ma era anche vero che facevo un duro lavoro redazionale. Comunque. No, nel mio caso, la scrittura non è un mestiere, e nemmeno la scrittura dei romanzi (alludo ai due che ho scritto fino a ora), anche se la narrativa è ovviamente un genere di più facile accesso al pubblico rispetto alla poesia. Ammiro quelli che sono riusciti a farne un mestiere, ma poi mi capita di dirmi (molto spesso) che non vorrei aver scritto i libri che hanno scritto loro. Quindi i conti non tornano. Alla fine preferisco la scrittura come un modo di contestare lo status quo. Che lo voglia o no, è in questo modo che ormai la pratico da anni. Ne Il rumore è il messaggio vi è una enorme carica polemica, una sorta di fiume collerico sotterraneo, nei confronti del mondo attuale. È molto interessante quello che accade invecchiando. Nessuno ti delegittima se sei giovane e incazzato con il mondo. In genere, la risposta sociale acquisisce una sorta di paternalistica tolleranza. “È normale che sia così, sei giovane. Ma però non esagerare, perché a un certo punto scatta la denuncia.” Ebbene quando sei vecchio, ti fregano molto meglio. E ti fregano con la complicità dei giovani. Innanzitutto, quando sei vecchio (post quaranta per intenderci) se sei incazzato, non è colpa del mondo ma tua. Infatti, cosa ha fatto la maggior parte dei vecchi come te? Ha abbandonato l’incazzatura giovanile per integrarsi come si deve (“Ha preso le proprie responsabilità”, si dice). Per chi rimane incazzato c’è qualcosa che non va. Il problema diventa suo. Non si è saputo integrare o non ha voluto integrarsi. Peggio per lui. E tu ovviamente pensi (cioè io penso): brutti filistei, brutti vigliacconi, a cinquant’anni vi va tutto bene! Ma poi intervengono i giovani (o, peggio ancora, alcuni vecchi alleati ai giovani): “Se sei incazzato, è perché sei nostalgico del mondo che era il tuo, in fondo sei un vecchio stronzo, un reazionario, con magari qualche alibi di radicalità e anticonformismo.” Quindi la tua incazzatura contro il mondo è due volte delegittimata. Primo perché è frutto d’invidia (non ti sei inserito a dovere, con un posto e un salario a dovere) e poi perché è frutto di mente retrograda (rifiuti le sorti progressive). Alla fine, trovo persuasiva la lettura di Jacques Rancière, il modo in cui lui pensa le “rotture” nella letteratura moderna a partire dalle avanguardie (o prima ancora). Io non mi sento contemporaneo al mondo in cui vivo, mi sento spostato su delle possibilità irrealizzate (per ora), e non certo su vecchi mondi antichi.

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