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Jason Mott anteprima. Che razza di libro!

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NN Editore porta in libreria dal 12 maggio, con la traduzione di Valentina Daniele, Che razza di libro! di Jason Mott, vincitore del Sir Walter Raleigh Prize for Fiction e del National Book Award for Fiction 2021. Suo il romanzo di debutto, un best seller del New York Times, The Returned (HarperCollins Italia 2013) che, adattato dalla casa di produzione di Brad Pitt, Plan B, in associazione con Brillstein Entertainment e ABC, è stato trasmesso sulla rete ABC con il titolo “Resurrection”; suo l’acclamato libro La bellezza delle piccole cose, pubblicato in Italia da Newton Compton Editori nel 2015. La promozione bizzarra per il paese di un libro di successo è la cornice di un quadro a tinte forti, in cui il realismo magico ed esilarante si mescola con la condizione reale, ineludibile del razzismo e dell’essere neri in America. Visione e allucinazione, realtà e sogno, uomo e ragazzino, passato e presente, amore e odio: un binomio ricorrente per chi si cela per salvarsi e chi si salva svelandosi. Una trama capace di rendere introspettivi i suoi personaggi e nello stesso istante tremendamente “reali”. Protagonisti senza nome nel tour di una narrazione a linee temporali parallele, ben ritmata, che disorienta. Maggiore è la profondità a cui vogliamo tendere, tanto più le distinzioni diventano complesse.

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La cosa da ricordare è questa: questa è soprattutto una storia d’amore. Non ve lo scordate mai.Ma ora che l’abbiamo detto, conosciamoci meglio: sono le tre di notte.

Sono le tre di notte e io sono da qualche parte nel Midwest, in uno di quegli stati piatti dove tutti sembrano più simpatici del dovuto. Sono in un albergo. Nel corridoio. Sto correndo. No, a dire il vero il mio è proprio un allungo. Sto correndo come un pazzo nel corridoio di un albergo del Midwest. Ho già detto che sono nudo? Ecco, sono nudo.

E mi inseguono.

Circa quattro metri dietro di me (corre anche lui, ma non è nudo), c’è un uomo enorme che brandisce una stampella di legno per abiti, anch’essa enorme. A volte la tiene come una mazza. Altre volte la solleva sopra la testa, come un’ascia di guerra. È sorprendentemente veloce per un uomo della sua stazza.

L’uomo enorme con la stampella enorme è vestito Old Navy dalla testa ai piedi: pantaloni beige straight-fit antimacchia, gilet a motivi argyle, mocassini marroni che forse sono di finta pelle o forse no. Sicuramente è un padre di famiglia. Due virgola tre figli. Un cane di nome Max. Una gatta di nome Principessa. Un acquario che è al dodicesimo pesce rosso di nome Lucky. Guida una Camry e abita in una strada senza uscita, in una casa circondata da uno steccato. Sul retro della casa c’è una piscina interrata. Ha un buon piano pensionistico.

È tutto quello che un adulto responsabile dovrebbe essere.

Dimostra più o meno la mia età: sul punto di lasciare il comfort decadente dei trenta e di bussare con riluttanza alla porta ingrigita dei quaranta. E per un istante, mentre corriamo lungo il lussuoso corridoio di questo albergo (i piedi pestano sulla moquette, le gambe bruciano, le braccia pompano come pozzi petroliferi) penso che vorrei fermarmi e chiedergli come ha costruito la sua vita. Come ha fatto a far combaciare così bene tutti i pezzi. Come ha fatto a fare tutto quello che a me non è riuscito. Voglio sentire qual è il suo segreto.

Ma guardandomi alle spalle vedo che solleva la stampella tipo ascia di guerra e grida: «È mia moglie! Quella è mia moglie! Abbiamo fatto dei figli!».

No. Non sarà questo il giorno in cui scoprirò il segreto di quelli come lui. Ora tutto ciò che posso fare è non permettere a quella stampella di raggiungermi. Così chino la testa e cerco di ricordare quello che mi diceva l’allenatore di atletica: «Ginocchia alte. Testa alta. Alta velocità».

È in momenti come questo che mi ricordo perché preferisco non incontrare le donne sposate. Inevitabilmente, finiscono per farmi incontrare gli uomini sposati.

Comunque, l’uomo arrabbiato dietro di me ha una gran bella falcata, ma io ho una cadenza migliore. La velocità è tutta questione di cadenza. È un’altra delle cose che mi diceva il mio allenatore. «Su-giù, su-giù. Bam-bam-bam-bam! Svelto, svelto!».

E io sono svelto.

Mi piace anche pensare che essere nudo mi dia un certo vantaggio. Stare senza vestiti significa portare meno peso. E questo rende sempre più veloci.

E infatti sto lentamente aumentando la distanza da lui e dalla sua stampella. Ma il problema è che tutti i corridoi degli alberghi, come tutte le vite e tutte le storie, a un certo punto finiscono da qualche parte, che sia un ascensore o una porta antincendio. In questo caso è un ascensore. Quelle porte scorrevoli e lucide ammiccano in lontananza quando lui e io giriamo un angolo del corridoio.

Ecco, è qui che mi prenderà. Davanti all’ascensore. Io lo so. Lui lo sa. Lo sa anche la grossa stampella di legno nella sua mano destra.

In genere non sono un tipo devoto, ma non esistono atei in trincea o davanti alla furia di un marito cornuto. Così mando al cielo una preghierina e cerco di concentrarmi sul tenere le ginocchia alte.

Riesco a guadagnare ancora un po’ di vantaggio.

«Nostra figlia è stata quasi scelta per uno spot di Target!» urla il marito furibondo dietro di me. «Siamo una famiglia! Non puoi distruggere la famiglia di un uomo!».

In un contesto diverso gli avrei battuto il cinque. Cazzo, quello sì che è un traguardo. Insomma, parliamo di Target! Essere quasi scelta per uno spot… oh, non è mica poco!

Proprio quando sono quasi in fondo al vicolo cieco dove si trova l’ascensore, dove dovrò fermarmi e dove quest’uomo enorme e arrabbiato e la sua stampella faranno di me ciò che vogliono, proprio in quel momento l’ascensore fa ding e le porte argentee si aprono, fluide come le porte del paradiso.

La mia salvatrice personale esce dall’ascensore. Ha ottant’anni se va bene. Bassa. Magra. Capelli azzurri e impalpabili, come spore di tarassaco. Trucco pesante come stucco. La schiena artritica è piegata sotto il peso di due sacchetti della spesa e della sua stessa esistenza ottuagenaria.

Perché sia andata a fare la spesa alle tre di notte non sembra una domanda importante, in questo momento.

«Signora!» grido.

Lei alza la testa. Mi vede: vede le mie ginocchia alte, la mia testa alta, la mia alta velocità, la mia nudità. Vede l’uomo dietro di me con la sua stampella da guerra. Fa spallucce, gira sui tacchi e torna nell’ascensore.

«Me lo tiene lì, signora?» grido.

L’uomo furioso dietro di me urla qualcosa a proposito dei costi degli apparecchi per i denti delle due figlie.

Le porte dell’ascensore cominciano a chiudersi e io accelero come non pensavo di essere capace. Sono un turbinio di ginocchia, gomiti e carne nuda. Perfino i miei genitali si sono ritirati in una piega aerodinamica.

Quando le porte dell’ascensore stanno per chiudersi sono abbastanza vicino da saltare. Salto.

Avviene tutto al rallentatore. Il mio salto sembra durare un’ora. Mentre volo oltre Capelli Azzurri, prima che la mia faccia sbatta contro la parete dell’ascensore, vedo dal sorrisetto sulla sua faccia che questo non è il suo primo rodeo notturno. È una donna di mondo. Ha ballato fino alle ore piccole della vita.

La mia faccia finisce contro la parete una frazione di secondo prima del resto del corpo. Lo slancio mi tiene lì come un insetto su un parabrezza, poi la gravità torna a farsi viva e mi schianto a terra.

«Trentaduesimo piano, grazie» dico appena il mio corpo nudo si posa sul pavimento dell’ascensore. Capelli Azzurri esegue e preme il pulsante.

Guardiamo le porte che si chiudono proprio nel momento in cui il marito con lo sguardo omicida (che probabilmente non è un cattivo diavolo, se lo conosci) arriva all’ascensore un secondo troppo tardi e non può fare altro che vedermi andar via. Grida qualcosa di indecifrabile mentre le porte gli si chiudono in faccia. Qualcosa in cui c’entra la responsabilità. La famiglia, il matrimonio e l’amore.

Poi sparisce e restiamo io e Capelli Azzurri. Guardiamo l’ascensore che conta i piani dell’albergo, l’uno dopo l’altro. Immagino che per lei il silenzio sia imbarazzante. Alla gente di solito non piacciono i silenzi, l’ho imparato nel mio vecchio posto di lavoro. Di mestiere rispondevo al telefono. Per tutto il giorno non facevo altro che parlare con le persone. Io non sono uno di quei tipi che potreste definire socievoli. Odiavo quel lavoro. Ma la cosa buffa è che lì ho imparato a parlare molto bene con le persone. Se c’è una cosa che so fare è mettere la gente a proprio agio.

«Che nottataccia» dico.

«Gliene potrei raccontare, di storie» risponde Capelli Azzurri, rapida come un colpo di frusta.

«Ci credo. Glielo leggo negli occhi».

«La vita è un caos» dice la donna, parlando all’improvviso come un oracolo. «Non è altro che un mulo fuggiasco votato alla distruzione».

«E che mulo».

«Lo può dire forte».

Indico le borse della spesa con un cenno. «Bottino ricco?».

«Eccellente» dice lei. «Proprio eccellente». Con un cenno, indica i miei genitali all’aria. «Ceretta?».

«Nossignora. Rasoio».

«Va così a fondo?».

«Cinque lame. Testina rotante. Meraviglie dell’età moderna».

La donna annuisce. Poi si schiarisce la gola, contorce le labbra sottili e vecchie in un cipiglio sottile e vecchio e dice: «Ha sentito di quel bambino?».

«Quale bambino?».

«Quello alla tv». Scuote la testa e i capelli azzurri ondeggiano dolcemente come quelli di una ninfa marina che ha visto salire e scendere la marea una volta di troppo. «Terribile. Una cosa terribile».

«Sì, terribile» dico.

La verità è che non ho sentito niente di quel bambino alla tv per cui lei è all’improvviso tanto triste, ma non c’è bisogno che lo sappia per comunicarle la giusta quantità di tristezza e preoccupazione. Piego gli angoli della bocca per imitare il cipiglio di Capelli Azzurri. Non voglio esagerare mettendomi troppo al centro di questa vicenda terribile, qualunque essa sia. Ma non voglio nemmeno passare per indifferente con un cipiglio troppo debole. Sapere quanto bisogna essere tristi in momenti come questo è un’arte.

«Tremendo, davvero» dico. «Non ci si crede che al mondo possa succedere una cosa del genere». Scuoto la testa.

La vecchia fa schioccare le labbra, in una nota di autentica disapprovazione. «Che tristezza» dice. «Una tristezza enorme».

Non dico niente per un po’. Lascio che l’aria fra noi si raffreddi. Un minuto di silenzio per la storia del bambino che tanto ci rattrista in questo momento. Voglio che questa meravigliosa sconosciuta sappia che mi sta a cuore quel bambino, perché così fanno le brave persone. E più di qualunque altra cosa, voglio che la gente pensi che sono una brava persona.

Il ding dell’ascensore rompe il silenzio. Le porte si aprono al mio piano.

«Bene» dico, uscendo nel morbido corridoio vuoto, privo di mariti rabbiosi o stampelle di legno. «La saluto. Grazie ancora per il suo aiuto, e Dio benedica quel povero bambino». Annuisco un’ultima volta. Sento che dovrei dire qualcosa di significativo sugli incontri fortuiti, sul fascino degli sconosciuti, sulla serendipità… cose di questo tipo. Ma non mi viene in mente nulla, così mi volto e inizio la camminata nuda verso la mia stanza.

Ho fatto appena qualche passo che lei mi richiama: «Ehi!».

«Sì?».

«Ha un’aria familiare. L’ho già vista da qualche parte? È famoso?».

«Non lo siamo tutti?» dico.

Lei annuisce e indietreggia nell’ascensore. Le porte si chiudono e non la rivedrò mai più. Non perché non voglia, ma perché così vanno le cose. È la vita che decide.

Torno alla mia stanza sentendomi molto ben disposto verso la vita. Questa notte è stata un’avventura. Ho conosciuto una donna deliziosa. E anche suo marito, che sono certo sia altrettanto delizioso, quando lo conosci. Ho incontrato anche una dolce, anziana signora con il gusto della conversazione. Ho l’aria fresca sulla pelle.

Cos’altro può desiderare una persona nella vita?

Solo quando arrivo alla mia porta mi rendo conto di aver lasciato la chiave nei pantaloni, nella camera della moglie del marito furioso.

© 2021 Jason Mott

© 2022 Enne Enne Editore, Milano

Berla & Griffini Rights Agency

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