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La bellezza ci salverà?

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La deriva dei valori, su cui si fonda la nostra civiltà, lascia attoniti, spauriti, ma non vinti, ancora pronti a combattere, gli animi sensibili che conoscono la Bellezza della solidarietà e del Bene comune. Questi sanno che conta la Bellezza di una vita impegnata nella cura della nostra anima immortale, e non il denaro, l’approvazione pubblica, volgarmente conseguita, non i rosari e i crocifissi ostentati perché tutti salgano sul carro del vincitore pericoloso, Solo questa conosce ciò che è bene per noi, ciò che ci dà pienezza di vita, ciò che dischiude orizzonti meno penosi di quelli che stiamo vivendo. Allora, di fronte all’infinitudo dell’anima, ci ritroviamo umani che pensano e amano, che sentono ancora contro la volontà di anestetizzarci e di “arrostirci”, come dice Guido Ceronetti. Di qui nasce la pazienza, la necessità cogente di recuperare le nostre radici più autentiche, ritrovando nella memoria il filo di Arianna che ci guidi fuori dalla cava ignoranza, per vedere ancora la luce della sapienza. Eccolo, il nostro Socrate, che, pur non sapendo nulla, ci illumina sulle infinite possibilità dell’Essere; questo lui sapeva: che all’uomo si aprono dimensioni stra-ordinarie, se concentra le sue energie a salire di piano verso gli interrogativi più profondi. Che cos’è il Bello? Il Buono? Il Vero? Di fronte a tali quesiti, si può cadere nel pozzo o scalare le vette della conoscenza; seguiamolo il Filosofo nell’Ippia Maggiore, nel Fedro, nel Simposio e vedremo che gli antichi hanno molto da dirci, soprattutto a noi che ancora e sempre desideriamo la luce di contro alle tenebre.

La tracotanza di Ippia, pur poggiando su basi di polumathìa, di un sapere enciclopedico, è votata allo scacco; figuriamoci quella di chi fonda il suo potere sull’ignoranza, ma abbiamo bisogno di un tafano che ci pungoli, correndo il rischio di essere condannato a morte. Dove sia questo profeta della verità non è dato sapere, ma egli salirà sul monte più alto e ci solleverà dalla pena di esistere. La vita è un abisso per i Greci, un emergere temporaneo e insignificante, un non senso che trova requie nella contemplazione del Bello. Ma cos’è il Bello? Ecco, Ippia, sebbene eruditissimo, sa solo esemplificare: bello è una donna bella, un cavallo bello; bello è l’oro o una vita bella; questa dimensione così incarnata, l’incapacità di distinguere tra una cosa bella e in Bello in sé certo non soddisfa Socrate, né tantomeno lo Sconosciuto, che, pur non apparendo sulla scena, è il vero protagonista del dialogo, l’alter ego di Platone, elevato nel mondo delle Idee. Per suo tramite, Platone ricerca il Bello in sé, l’idea di Bello che si incarna nelle cose belle, ma certo non coincide con esse. C’è un Bello eterno e assoluto, che preesiste al mondo materiale, collocato nell’Iperuraneo, dove, sovrana, regna la conoscenza, di cui sulla terra abbiamo ricordo attraverso tracce mnestiche. La Realtà consente una percezione parziale delle Idee, il cane è una parziale incarnazione dell’idea di cane; il corpo bello è una manifestazione carnale dell’ Idea di Bello, ma solo il filosofo ascende alla contemplazione del Bello in sé, riconnettendosi con l’Uno, tò eòn, tò agathòn. L’uno è il Bene assoluto, cui dobbiamo ritornare dopo la dispersione nella molteplicità del reale; dobbiamo risalire la china per ritrovare quell’unità perduta incarnandoci.

Un viaggio à rebour, faticoso certo, ma di estrema soddisfazione, appannaggio di chi aspira alla Verità. Il Bello non è l’utile né il conveniente, ma il Buono e il Vero, che si conseguono quando tutte le energie sono concentrate nella contemplazione del mondo delle Idee. Per questo, l’arte, in quanto imitazione dell’imitazione, è da rinnegare, perché ci distoglie dalla Verità; non certo il Mito, deposito delle Idee originarie, cui attingiamo in modo creativo. In questo ritroviamo infatti la Verità di ciò che siamo nell’intimo, nelle nostre aspirazioni più autentiche; lì si coglie la divina coesione dell’altrimenti frammento . Il principium individuationis di Eraclìto, frammentandoci, in un de sideribus cadere, dà inizio alla vita, che è fatta di lacerazioni e di ricongiunzioni. L’aspirazione platonica è di ritornare a quella condizione di completezza che abbiamo conosciuto prima della nascita, quando eravamo tutt’uno con le Idee. La vita è un nostos, un viaggio di ritorno a ciò che fummo, di cui abbiamo tracce mnestiche per averlo sperimentato. Tutti gli uomini tendono al ricompattamento dell’unità originaria, massime il Filosofo, che è erotico sopra ogni altro, perché si muove verso l’Idea del Bello/Buono/Vero. L’erotismo del Filosofo consiste nella sua tensione infinita verso quel luogo che è la sede dell’indifferenziazione dei sessi, annullamento degli opposti, Unità assoluta, in quanto sciolta dal Reale. Eros è un demone né ricco né povero, né maschio, né femmina, figlio di Poros e di Penìa, tende verso ciò che non ha, ma di cui conosce l’esistenza. Aspira all’appagamento, insoddisfatto, di ciò che vorrebbe essere senza esserlo, nel perenne tutto domandare in uno slancio etico. L’estetica etica di Platone ci avverte del pericolo che viviamo oggi, in cui l’etica è in vacanza da tempo, e si è smarrita la dimensione dell’anima che aspira all’unità tramite il discorso dialettico e psicagogico. La Verità per Platone si raggiunge infatti nel dialogo delle anime che insieme trovano l’equilibrio dell’auriga che guida il cavallo nero e quello bianco. Quando questa armonia si spezza, l’anima perde le ali e precipita nel caos mondano. In questo caos oggi annaspiamo, dimentichi di quanto sapere sia deposto nel pensiero di Platone, primo e massimo esperto dell’anima umana.

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