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La biblioteca del paradiso

Il bianco, il vuoto, poi qualche parola.

Forse l’Universo inizia proprio come un racconto.

E tutto intorno a noi forse è un racconto.

Noi siamo gli scrittori. Ma di cosa? Sopra i racconti di altri? Su una trama ignota?

E noi il racconto di chi siamo? Cosa serve per dare a tutto un senso?

Chi scrive sente il mondo con il cuore. La scienza cerca la penna dello scrittore.

Qualcuno prega che a cambiare sia il finale.

Ma il finale è sempre lo stesso.

Cosa rimane di queste emozioni pressate in fogli di cellulosa in un mondo che ha smesso di leggere?

Che fine fanno i libri quando muoiono? Quando vengono distrutti e muore l’ultima persona che li ha letti?

Vanno in paradiso o spariscono per sempre? Entrano nell’inconscio collettivo e diventano leggende?

Ma a noi cosa cambia?

Noi sappiamo a malapena scrivere. Cose che passano. Che finiscono.

Le emozioni, i desideri e le violenze.

L’infinito non lo scriviamo mai.

Rimane sulla punta della penna o lo sfioriamo senza vederlo.

Il nostro divino è superbia.

La penna del divino non ci sfiora.

Rimane oltre il velo del reale, vediamo soltanto l’inchiostro di cui siamo fatti.

Siamo inchiostro che pulsa che vibra e che sporca.

Inchiostro che puzza.

E le nostre parole? Sono il nostro sangue.

L’essenza, l’estratto di un inchiostro che crede di pensare.

Durano più di noi ma non più dell’umanità.

Se anche le scolpiamo nella pietra in fondo non c’è nulla di serio, nulla di Eterno.

Se avessi parole per commuovere un insetto intelligente che leggesse un mio romanzo tra cento milioni di anni, avrei fatto sempre poco.

Perché l’Universo è così grande che non ce lo possiamo godere e più lo conosciamo e più ci viene rabbia.

E poi c’è il tempo che non si sa mai quando finisce.

Siamo troppo piccoli per capire veramente qualcosa.

Per questo preferiamo l’Infinito.

L’Infinito rende tutti uguali. L’Infinito è democratico.

Davanti all’Infinito anche la più grande dimensione vale nulla.

Ci rivolgiamo all’Infinito come se fosse un fratello maggiore se qualcosa più grande di noi, il cielo o il mare o il sole ci fa uno sgarbo.

Ma il sole rimane il sole e noi rimaniamo noi.

Per questo scriviamo. Per scappare dalla nostra umanità. Per creare un Universo dove siamo migliori.

Oppure per creare Universi che possono farci star meglio nell’Universo in cui viviamo, dove le bollette sono care.

Ma quando scriviamo, per quanto possa essere inutile, noi siamo Dio. Inventiamo i nostri personaggi e gli facciamo fare quello che vogliamo, a volte li indossiamo altre li liberiamo.

Li lasciamo vivere e sfogarsi o li freniamo.

Ma non sono vivi veramente, quello che fanno lo decidiamo sempre noi sporcando una superficie a due dimensioni.

Comunque sia, è un bell’esercizio. È il nostro unico modo per creare la vita dal nulla.

Ma anche noi siamo vita e la vita va e viene.

Quando facciamo Dio, il nostro è soltanto un gioco, davanti a un foglio di carta.

E comunque, quando le cose vanno male, stracciamo il foglio e lo buttiamo nel cestino.

Finiremo anche noi nel cestino?

In fondo cerchiamo le parole di un pensiero o di un racconto che possa arredare la biblioteca del Paradiso, su uno scaffale, in bella vista, piacendo a Dio che ci legge in copia per conoscenza.

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