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La Distinzione. Intervista a Gilda Policastro

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La Distinzione è il nuovo libro di poesie di Gilda Policastro e si compone di testi inediti e editi, miscellanea che ricerca e sperimenta, a mio parere, una forma installativa di poesia, tra il «progetto di eavesdropping, l’ascolto casuale in situazioni di vita sociale (o social)» e quello di scrittura automatica generata dal GPT-3. La Distinzione mette in scena la sottrazione dell’io-poetante esaltando le situazioni tragicomiche della quotidianità. Scrittura che tralascia l’io e insegue il godimento della scrittura che confina spesso con la sua stessa dannazione. V’è un lato profondo e umano, del dolore, che Gilda Policastro riesce a mediare con una scrittura che non ripiega mai nel privato e nel patetico. Emotiva, certo, mai autoreferente. Un dolore che il simbolo della scrittura rende tragitto di conoscenza. E per farsi tale, per pretendere una sorta di verità della cosa poetica, Gilda Policastro instaura una sorta di dialettica con la censura social, soprattutto, in cui l’avatar autoriale inevitabilmente si scontra con quell’omologante forzata rassicurazione del mercato editoriale. La Distinzione potrebbe essere un vasetto, chissà di cosa, ma di sicuro anche un tragitto nelle possibilità, che parrebbero finite, di una scrittura del quotidiano che si fa porta di altrove attualità…

Genesi e desiderio del tuo libro.

Genesi e desiderio coincidono: uscire da una dimensione introflessa (“l’io puzza”) e andare per strada, il luogo del “si dice” e della chiacchiera. Cogliere, del quotidiano, l’aspetto comico, soprattutto nelle situazioni in cui il quotidiano ha una piegatura tragica. Tracciare un paesaggio sonoro, raccogliere i tic verbali dei parlanti nelle situazioni comuni e di relazione con l’altro (l’attesa di un esame diagnostico come quella di un messaggio su WhatsApp). Soprattutto, nelle situazioni social, che sono la vera strada o piazza in cui più spesso ci si incontra e scontra nel quotidiano digitale. 

Quando scrivi, godi?

C’è senza dubbio una scarica energetica nel picchiettare sui tasti. E con la mia analista siamo giunte alla

Foto: Rino Bianchi

conclusione che la mia passione per il ballo, battere i piedi, abbia a che fare con la scrittura e con quel picchiettare là, o viceversa. 

Vero che se parliamo della scrittura in modo non contingente ma continuativo è piuttosto una dannazione, non riuscire a farne a meno, anche quando vedi che è tutto inutile che alla fine in classifica ci va la non scrittura.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?

Il pezzo più problematico rimane quello di apertura, sulla madre. È un testo che ha colpito dalla sua prima esecuzione pubblica, ma rispetto al quale ho molti problemi, a distanza di tempo, per la sua immediatezza emotiva. L’ho riproposto perché è una specie di viatico per il resto del libro, dalla vicinanza al dolore si passa attraverso quella porta. Che è insieme intima generazionale esistenziale. 

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Vasetti. 

Durante una presentazione Dario Voltolini, (che è uno scrittore di razza ma anche uno che si spende moltissimo per le scritture altrui, e questo non sempre va in automatico con l’essere bravi scrittori, ovviamente) ha detto che questo libro lo ha toccato perché lui c’era. Ecco, quelli che c’erano sanno perché vasetti. Quelli che leggono possono immaginare, credo. 

Che rapporto hai con la censura?

Non so se mi sia capitato di misurarmi effettivamente con la censura, nell’ambito letterario. Nel senso che i miei libri hanno avuto la fortuna di essere presi e accettati così com’erano, senza particolari interventi editoriali, se non quelli minimi e davvero necessari (i temutissimi refusi, che sono il prezzemolo tra i denti di cui ti accorgi fatalmente a fine serata). Però nella mia biografia ci sono molti episodi di censura (soprattutto rispetto alla funzione critica) e finanche un processo (non nelle aule di tribunale, ma il pattern era identico). Credo sia una forma di violenza e solo una finzione ipocrita di tutela di una qualche istanza. La verità non è gradita, e anzi, sarebbe meglio assecondare la menzogna che è non solo, manganellianamente, la letteratura in sé ma soprattutto ciò che le sta intorno, i suoi protagonisti vezzosi e bizzosi. Soprattutto perché nel ventennio social le agende non sono più dettate dagli autori ma dagli editor e dagli uffici stampa, figure che dovrebbero essere di servizio e sono invece al centro della recita mondana della Letteratura. Una di queste figure ha detto di me che ho il vizio di scrivere tutto su Facebook. Questo perché uso il social criticamente, e non come forma meramente autopromozionale (ecco i miei gioielli, diceva Cornelia). Anche questa, sebbene più strisciante e complottarda, è censura. 

E venendo proprio ai social, in cui comunque sono soprattutto professionale, nel senso che nulla, dai miei social, è deducibile del mio privato, e tutto è filtrato dalla voce del mio avatar autoriale, una volta sotto un  video performativo un utente ha scritto: ma non sei una professoressa? Non so in nome di quale legge dello stato a una professoressa sia interdetta  la pizzica. Mi piacerebbe saperlo. O forse no, meglio di no. Infatti non gliel’ho chiesto. 

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Nessuna delle due, credo. Scrivo per sapere le cose, o per farmele spiegare da chi le leggerà. Credo ancora al circolo ermeneutico ma soprattutto al vizio assurdo, parafrasando Pavese. La scrittura è in effetti un vizio, una tigna, un’autoflagellazione. Poi si spera che serva a qualcosa: ad esempio a ribadire che nulla serve veramente. Quindi tanto vale scrivere. Assurdo, e vizioso com’è. 

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Gilda Policastro, La Distinzione, Giulio Perrone editore, 2023.

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