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La lettura come meditazione. Intervista a Francesco Casamassima

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Francesco Casamassima è nato a Matera – dove ha trascorso infanzia e adolescenza-, città a cui è ancora legato da struggente nostalgia per i luoghi ed i personaggi della commedia dell’arte che la abitano. Da poco più di dieci anni vive a Firenze, dove si è trasferito nel 2013 per assumere il ruolo di Responsabile del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale Santa Maria nuova, e attualmente dirige i Servizi di Salute Mentale per l’età adulta della città. Nell’ambito dell’attività di studio e ricerca del dottorato ha vinto una fellowship presso il Massachusetts General Hospital di Boston (Università di Harvard), dove si è trasferito da Pisa. A Boston ha pubblicato una dozzina di articoli che gli sono valsi un paio di premi come miglior giovane ricercatore. Scrive poesie e racconti da quando era bambino. “Tempo libero” (Affiori Editore 2024) è il suo romanzo d’esordio.

Mario Schiavone

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Sei un medico psichiatra, che si scopre romanziere di talento con un ottimo esordio: che differenza passa, rispetto alla tua scrittura, tra l’ascoltare le storie quotidiane dei tuoi pazienti, magari provando a interpretare le loro vite, e il leggere romanzi per comprendere le storie universali delle vite passate?

Ai tempi del liceo ero un lettore ossessivo e vorace, distratto da una discreta attitudine per le materie scientifiche. Scelsi la facoltà di Medicina come si sceglie un compromesso, la scienza più umana, non avendo il coraggio di decidermi per lettere classiche. Ho provato a lungo a rimediare a questa sorta di peccato originale, o a dimenticarlo dedicandomi a tempo pieno alla ricerca. L’assistenza clinica, visitare pazienti, mi ha pienamente restituito alla mia passione per le storie, alla curiosità per il registro personale con cui vengono raccontate. La differenza sta nella consapevolezza e nel controllo di questo registro, nello sguardo che seleziona in un racconto di vita individuale gli elementi emblematici che potrebbe evocare la storia di ognuno.

Leggendo le pagine del tuo libro appari come un indagatore di dinamiche umane: le tue storie in fondo parlano di relazioni esistenziali. Ti andrebbe di raccontarci come interagisci, nella tua mente, con i personaggi delle storie che scrivi?

I sentimenti che provo o voglio far provare, le immagini che vedo o voglio mostrare vengono prima dei personaggi. Soprattutto in “Tempo Libero”, costruito su dialoghi interiori, su una comunicazione quasi telepatica di coscienze, a cui faticavo io stesso ad attribuire sonorità, i personaggi provano a incarnare sentimenti e immagini originarie. Se progressivamente prendono corpo, inizio a provare altri sentimenti, per loro, ad evocare altre immagini che li riguardano. Così, i personaggi si gonfiano, crescono.

Per motivi di studio hai vissuto in grandi capitali straniere e per motivi di lavoro in piccoli borghi italiani: cosa fa uno psichiatra-scrittore quando gira per il mondo?

Quando arrivai a Boston, negli Stati Uniti, non conoscevo quasi nessuno. All’inizio capitava che, lavorando in un laboratorio, passavano giorni senza che spiccicassi parola. Per fortuna tra i sentimenti che maggiormente mi attanagliano non c’è la solitudine. Anzi, apprezzavo molto il silenzio e la distanza. Anche nelle Marche e in Valdichiana avevo tempo per pensare ed immaginare in pace, ma avevo ripreso a parlare quotidianamente con i pazienti. In entrambi i casi non accadeva granché al di fuori della mia mente.

Si dice in giro, molto probabilmente a torto, che in Italia si diventa scrittori solo se figli d’arte. Ti andrebbe di raccontarci quale è stata la tua formazione autoriale e quanto hai faticato per arrivare a questo esordio?

In Italia si scrive tantissimo. Talvolta, ho l’impressione che si scriva più di quanto si legga. Il problema è che si pubblicano i personaggi più spesso degli autori, perché l’editoria è un’industria, e per giunta in crisi. Come l’industria farmaceutica, piuttosto florida, preferisce spesso investire su molecole poco innovative ma prescrivibili a molti pazienti, così l’editoria preferisce investire su personaggi che hanno già un pubblico di curiosi, non proprio di lettori.

In Italia, nell’arte come nei mestieri, si parte avvantaggiati se si è figli di qualcuno che ci sostiene, la strada è segnata, non dobbiamo fare altro che seguirla. Non appena misi piede nella facoltà di Medicina mi resi conto che ero circondato da un sacco di figli di medici, ed i figli dei professori universitari finivano spesso per seguire le orme dei genitori. Non sempre è un vantaggio. Il compito dei genitori è osservare e rinforzare vocazioni e talenti dei figli, non trasferirglieli per via ereditaria snaturandone l’identità. Per molto tempo non ho sentito alcun bisogno di pubblicare ciò che scrivevo, forse per pudore. Una volta vinto il pudore sono arrivate altre difficoltà. Vedersi pubblicati è il sogno di molti scrittori. C’è sempre chi vuole approfittarsi della difficoltà molto umana di distinguere tra sogni e illusioni. Mi hanno fatto irricevibili proposte editoriali, scritte in un italiano zoppicante. Ho provato a rimanere lucido, pur non essendo affatto esperto del mondo in cui ero finito.

In ragione della tua crescita umana e culturale, rispetto agli stimoli necessari alla crescita di ogni individuo, secondo te quanto è stato fatto – negli ultimi anni – sul tuo territorio a proposito di: attivazione e gestione di biblioteche pubbliche, attivazione e gestione di librerie indipendenti, organizzazione di eventi in generale finalizzati alla trasmissione dei saperi attraverso la lettura condivisa di libri.

Non molto, eppure Firenze è una città culturalmente viva, che fa della cultura, dell’arte, della storia anche una fonte di ricchezza. C’è molto bisogno di librerie indipendenti, non soffocate dai meccanismi della grande distribuzione, che vivano della passione dei librai. Entrare in una libreria indipendente, essere serviti e consigliati da un libraio appassionato è un’esperienza completamente diversa rispetto all’impersonale girovagare tra libri preselezionati, preconfezionati, cercando di attirare l’attenzione di un commesso malinconico. È come fare la spesa in una bottega anziché al supermercato. Non apprezzo nemmeno lo spostamento sulle piattaforme virtuali di vendita, che danno soltanto l’illusione, con il meccanismo drogato delle recensioni, di fare scelte più consapevoli. Da ragazzo sognavo di possedere una libreria, di farne un caldo luogo di aggregazione, in competizione con le parrocchie e le sezioni di partito. Non dispero. Discutere di idee, condividere storie e fantasie è un passatempo bellissimo, non lascia vuoti come discutere di persone, commentare minuti fatti di vita altrui.

Ti ritrovi in una struttura sanitaria, ma in qualità di scrittore, a parlare di libri. Alcuni dei pazienti presenti sono distratti, a causa di mille problemi di salute. Hai pochi minuti per richiamare la loro attenzione e far comprendere a quelle persone che leggere storie può aiutarli sul piano del benessere mentale. Cosa dici loro per spronarli alla lettura?

La lettura ha curato la mia salute e non mi ha mai tradito. Si può leggere ovunque e comunque, in tutte le età della vita. Quando siamo troppo prossimi alla nascita od alla morte, una persona cara può leggere per noi, con poca fatica. La lettura è stata per me meditazione, protezione, sicurezza, lenitivo e terapia. Ma non potrei definirla un farmaco, perché i farmaci controllano i sintomi, la lettura cura. Gli direi così.

Come, dove e quando rubi tempo alla vita da dedicare alla lettura e alla scrittura di storie?

Nel concreto, quando ho deciso di dare concretezza ad un’idea, ci metto metodo e mestiere. Rubo a mia moglie un paio di sere a settimana, mi sveglio presto il finesettimana. Ma se un’idea mi entusiasma continua a fermentarmi in testa tutto il giorno, prendo appunti, può capitarmi così di assentarmi e trasalire, o di passare delle giornate in uno stato di lieve dissociazione. La lettura è il brodo di cottura e il condimento del mio tempo. Quasi sempre mi porto dietro un libro. Leggo mentre mia moglie sceglie un vestito, leggo per strada, a letto, a tavola se pranzo da solo. Non conosco cosa sia la noia.

Scrivere significa anche trasfigurare la vita reale, prendere il vissuto proprio e quello altrui e ricavarne storie. Ti sei mai vendicato di qualcuno o qualcosa (che avevi a cuore o che odiavi) inventando una storia?

Nella vita come nella scrittura non cerco vendette, posso provare fastidio, frustrazione, non odio. E non perché sia particolarmente buono, anzi. Una possibile spiegazione è che non sono mai del tutto presente a me stesso e alla realtà. Quindi, i fatti, ed anche alcuni sentimenti, mi arrivano da lontano e in differita, innocui. Però, distanza e differita aiutano caratterizzazioni disincantate e sarcastiche, in generale aiutano l’ironia. Forse, trasfigurare in caricatura persone e situazioni, potrebbe sembrare una forma di vendetta. Non me ne dispiaccio.

Cita cinque romanzi contemporanei per te fondamentali. Raccontaci pure come hanno cambiato il tuo approccio rispetto al tuo leggere e al tuo scrivere.

È una domanda complicata. Quando si parla di letteratura, forse perché la poesia è stato il mio primo e duraturo approccio alla scrittura, mi vengono in mente per primi i nomi di poeti come Eugenio Montale, Mario Luzi, Rainer Maria Rilke. Inoltre, non ho buona memoria e davvero pochi romanzi mi restano impressi. Però, ci provo, sottolineando che potrei dare risposte diverse se la domanda mi venisse posta in un altro momento.

1. “La campana d’Islanda”, di Halldòr Laxness: un romanzo mitico e mitologico, denso di voci arcane, di storie archetipiche. Collude con le mie più profonde fantasie di ritiro, rifugio e riscoperta in un luogo ed un passato epici.

2. “La riva delle sirti”, di Julien Gracq: è un romanzo decisamente metafisico. Ogni pagina è degna di essere letta, uno dei pochi libri che avrei voluto sottolineare. Non ne ho avuto il coraggio.

3. “Klara e il Sole”, di Kazuo Ishiguro: un romanzo semplice, puro e straziante. È molto difficile scrivere favole per adulti.

4. “Tenera è la notte”, di Francis Scott Fitzgerald: è forse l’unico libro di cui ricordo perfettamente quando l’ho letto (avevo vent’anni, studiavo Medicina a Pisa). Incombe sul mio passato e sul mio futuro come una provocatoria profezia.

5. “La luna e i falò”, di Cesare Pavese: immagino di tornare indietro, con la macchina del tempo. Andrei a far visita a Cesare Pavese, per ammirarlo e confortarlo. È un romanzo di profonda nostalgia e inespugnabile malinconia.

In generale, mi affascina la tensione lirica anche nella scrittura in prosa. Con l’eccezione di “Klara e il Sole”, i romanzi che ho citato (e molti altri che citerei se tu dovessi rifarmi la domanda), mi hanno colpito per la bellezza della pagina, per l’incanto dello stile.

Cosa pensi delle IA come strumento di scrittura? Sono davvero utili? Le hai mai usate per scrivere una storia? Secondo te sono un alleato o un nemico nei confronti della gestione del processo creativo dello scrittore?

L’IA mi affascina e stimola in me, come immagino in molti, fantasie di scenari distopici. Non l’ho mai utilizzata per scrivere, di sicuro potrebbe aiutarmi ad approfondire campi della conoscenza distanzi dalle mie competenze. Per scrivere un romanzo storico bisogna studiare molto o farsi aiutare. Per descrivere con accuratezza tecnica un’imbarcazione da diporto, bisogna avere esperienza di navigazione. Come succederà per molti altri mestieri, cambierà necessariamente il mestiere di scrittore, selezionando, fino a ridurla alla sua imperscrutabile essenza, la specificità della creatività umana. La maggior parte delle storie si scriveranno da sole. A lungo rimarrà all’essere umano il monopolio dell’”arte”, gli scrittori dovranno brillare per creatività, ricercare il sublime. Poi, l’IA potrebbe diventare altrettanto artisticamente sublime e ingannare l’occhio dei critici più esperti, alla ricerca del prezioso “ingrediente umano”. Fieri, come si collezionavano nelle case mobili antichi nell’età d’oro dell’antiquariato, collezioneremo “libri scritti da esseri umani”, fingendo di riconoscerne e apprezzarne il valore.

Esiste una storia che non scriveresti mai? Di cosa (non) potrebbe parlare?

Non scriverei mai, direttamente, la storia poco interessante della mia vita. Non racconterei mai, in veste romanzata, la vita di un uomo famoso, perché troverei molto più noioso ricostruire una storia, invece che immaginarla. Non potrei mai scrivere una storia “di genere”, ovverosia animata da sentimenti chiari o chiaramente contrapposti (il coraggio e la codardia in un romanzo d’avventura, la paura in un romanzo thriller, l’amore in un romanzo rosa), perché io non funziono così. Non amo le storie di ambientazione “western”, con cavalli, pistoleri, sparatorie, perché ho sempre ritenuto la polvere nemica dei libri.

Raccontaci, se ti va, a quale nuova storia stai lavorando in questo periodo.

Ho completato da alcuni mesi un altro romanzo. Il titolo provvisorio è “Il Re”. Il romanzo narra di un gruppo di “scapoloni” (uomini celibi oppure infelicemente sposati) materani, amici d’infanzia e per la vita. Hanno storie tristi e comiche, grottesche, che si intrecciano e influenzano. Sono disadattati, buffi, uniti in uno stesso destino come gli animali di uno zoo. Nella vita pubblica incarnano le caratteristiche dei personaggi caricaturali della commedia dell’arte. Sullo sfondo, la città di Matera, con le sue tradizioni, la sua sospensione surreale nello spazio e nel tempo, è la vera protagonista.

Ho scoperto che la promozione di un libro è un altro lavoro, che richiederebbe una vocazione specifica e di sicuro molto più tempo di quello di cui dispongo. Pertanto, nel frattempo, sto scrivendo racconti e poesie.

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