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Alessandro Ceccherini. Che Venga la notte

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Per Le Tre Domande del Libraio questa settimana incontriamo lo scrittore toscano Alessandro Ceccherini, che, esattamente a due di distanza dal suo esordio con il romanzo ‘ Il Mostro ‘, ancora una volta per la casa editrice Nottetempo è arrivato nelle nostre librerie con “Che venga la notte”. Se nel primo libro, in un arco temporale che andava dal 1935 ai giorni nostri raccontava le vicende di una delle pagine più oscure e spaventose del nostro paese, quelle relative agli omicidi del Mostro di Firenze, qui si concentra sulla storia di Donato Bilancia e gli efferati delitti compiuti tra l’ottobre del 1997 e l’aprile del 1998.

Alessandro, dopo il successo de ‘Il Mostro’, torni a raccontarci un nuovo caso di criminalità seriale molto noto. Con “Che Venga la notte” vai a ricostruire un’altra storia di cronaca complicata e ancora una volta la forza del romanzo è tutta nella capacità di utilizzare la tua penna estremamente felice e letteraria per insinuarti tra la cronaca e gli eventi giudiziari. Ti chiederei, innanzitutto, di partire dal titolo suggestivo per spiegarci l’idea iniziale e poi portarci nell’officina di lavorazione di questo secondo romanzo, le ricerche compiute e la scelta formale adottata?

Innanzitutto ti ringrazio dell’attenzione, Antonello. Il titolo, Che venga la notte, è nato mentre scrivevo l’opera, fin da subito l’ho trovato bello e ambiguo, ed è inoltre legato a un’idea fondamentale del romanzo: la notte intesa come antagonista del giorno, come una forza che precede e forse succederà a ogni manifestazione legata alla vita e quindi a ogni fattore umano. Il protagonista, Donato/Walter, è una creatura il cui viaggio è quasi totalmente notturno, e che prima di sprofondare vede crollare uno dopo l’altro i ponti col mondo e le sue luci.
Il lavoro che ho fatto per arrivare alla forma definitiva di questo romanzo è consistito essenzialmente in tre fasi: la prima è stata quella di ricerca (sono stato a Genova per oltre due settimane, di cui alcuni giorni passati chiuso in emeroteca, e ovviamente mi sono letto atti giudiziari e libri sul caso e sulla Genova dei decenni che racconto); la seconda è stata quella di elaborazione della struttura (iniziata prima di andare a Genova, poi affinata e definita); la terza è l’atto creativo della scrittura vera e propria.
Lo stile del romanzo è lo stesso del Mostro: terza persona, tempo presente, eventi che avvengono in presa diretta con possibilità di entrare nell’interiorità del personaggio e raccontarne emozioni e pensieri. È uno stile in cui mi trovo molto a mio agio e che ho affinato con anni di scrittura. Il centro della narrazione è Donato/Walter, anche se ci sono molti personaggi che non solo gli gravitano intorno, ma su cui pongo la focalizzazione in determinati punti del romanzo.


In pochi mesi, Donato Bilancia compie diciassette brutali omicidi e tutto un intero paese viene coinvolto in un clima di panico e di morbosa sete di notizie, prima, e giustizialismo dopo l’arresto. Nel romanzo racconti e analizzi il percorso di vita di questo spietato serial killer tutto italiano. Vogliamo raccontare quei mesi e approfondire la trama e spiegare anche ai nostri lettori come è strutturato il romanzo?

Il romanzo, dopo un breve prologo in cui Bilancia uccide una donna su un treno (unico omicidio raccontato dal punto di vista dell’assassino), si struttura in tre parti, ognuna divisa in sei capitoli. La prima si intitola Ordine, e copre circa metà del romanzo: inizia nel 1963 arrivando al 1997, e racconta la vita di Donato/Walter, dalla gioventù in piazza Martinez (ai margini di una comitiva al cui centro stavano personaggi quali Beppe Grillo – detto Giuse –, Orlando Portento e Antonio Ricci) fino alla maturità che lo vede ladro, puttaniere e giocatore d’azzardo, tutto attraverso dei balzi temporali che seguono una geometria narrativa studiata per essere solida e aggiungere significati specifici all’intera parte. La seconda, Caos, racconta i pochi mesi in cui Bilancia uccide: qui le cose cambiano, la rigidità geometrica della struttura in parte crolla e il protagonista vive trasformandosi in un’ombra che compare a portare la morte nella vita di diciassette persone; la narrazione diviene un gorgo in fondo al quale non c’è la morte, ma la cattura e un’ennesima trasfigurazione di Donato/Walter. La terza parte, Stasi, racconta infatti del serial killer in carcere, sotto gli occhi del mondo intero, spinto verso una luce che forse trova la maggior intensità possibile nell’intervista televisiva di Bonolis per Domenica In (sono dovuto andare agli archivi della Rai per vederla, in quanto online è introvabile, c’è solo una trascrizione). Ci sono poi brevi sogni (al centro di ogni parte e in altri punti).
Il romanzo racconta la vita di un uomo i cui desideri corrispondono a quelli covati da moltissimi altri uomini, che riesce a realizzarli e che poi li vede sgretolarsi, un uomo deriso e solo, incapace di amare in quanto non ritiene possibile essere ricambiato, assediato da desideri insoddisfabili e inscritto in un destino tragico. Di fronte al definitivo fallimento economico, egli non riesce a confrontarsi col vuoto ma fa un passo con cui supera un ulteriore limite sacrificando se stesso e il mondo pur di rimanere aggrappato con le unghie alle uniche cose per lui giustificano l’esistenza: soldi e donne.

In attesa di ospitarti ancora una volta online su Scrittori a domicilio e poi a Parma dal vivo, ti va di approfondire nel dettaglio la figura di Donato Bilancia e l’immagine che ne ricava il lettore dalla lettura romanzo?

Donato Bilancia abbandona da giovane il proprio nome che considera “da terrone”, e decide di farsi chiamare Walter – nel romanzo gli faccio fare questa scelta in onore a Walter Chiari, attore bello e amato a cui di certo poteva voler assomigliare: la logica di questa mia scelta non sta nella verità ma nel verosimile, ed è quella che guida quasi interamente la scrittura di quest’opera che, è bene ricordarlo, non è un’indagine giornalistica ma un romanzo. Simbolicamente, cambiandosi il nome, Walter si allontana dalle proprie radici per seguire la sua strada tra i vicoli notturni di Genova e le vie della Liguria, il tutto mentre mantiene rapporti costanti ma freddi con la famiglia, nella quale non trova amore, comprensione o profondità emotiva. Gli anni della maturità lo portano in giro per il mondo ad affermarsi come ladro e viveur, ma certe manchevolezze fisiche non gli permettono di amare una donna quanto vorrebbe, finendo per odiarle e considerarle come semplici oggetti da collezionare. Maneggia molti soldi che dilapida nelle bische e nei casinò in un moto di continua dissipazione di sé. Suo fratello, che nella vita ha seguito una strada nella luce (lavoro, famiglia, un figlio), si suicida nel 1987, dieci anni prima che Bilancia inizi a uccidere: si lancia sotto un treno insieme a Davide, il figlio di tre anni e mezzo. La vita sembra sussurrare a Donato/Walter che non esiste possibilità di salvezza: per due volte finisce in coma ma non vede alcuna luce in fondo al tunnel, solo il nero più assoluto. Quando si trova di fronte al fallimento economico, impossibilitato a delegare ai soldi le funzioni centrali della propria esistenza, scopre il nulla, il vuoto, il suo gorgo personale sul cui fondo si sono sedimentati solo odio e invidia, da cui origina il desiderio di dar fuoco a ogni cosa pur di garantirsi la possibilità di far rotolare un paio di dadi o pagare una prostituta. Bilancia è interessante per molti motivi, uno di questi è che, a mio avviso, le radici del male che crescono in lui sono molto diffuse, e credo sia un esempio estremo di un certo vuoto morale che caratterizza la nostra società edonista, basata sull’invidia nei confronti di chi è più ricco (dietro cui si nasconde il desiderio di essere ricchi, e quasi mai quello di voler combattere le differenze ingiuste e immorali), sulla lotta tra singoli piuttosto che sulla lotta comune, sull’accumulo e sull’esibizione di sé e degli status symbol (vestiti, case, automobili: sempre la stessa roba). Le parole di Bilancia sono quelle di un assassino che racconta se stesso, eppure gli credo quando dice che era la noia a  spingerlo fuori di casa la sera: non lavorava, non aveva progetti concreti nella vita, non aveva motivo per alzarsi presto, non aveva veri amici e niente che lo potesse proteggere dal vuoto che resta quando tutto crolla e la solitudine diventa irrimediabile. Lungi da me volerne fare una specie di martire della società, ma certo non voglio limitarmi a puntare il dito, per fare quello basta la televisione pomeridiana e non serve scomodare la letteratura. Nella stesura di questo romanzo e attraverso il processo di mimesi ho cercato di rimanere a galla con Donato/Walter, per poi, inevitabilmente, cadere sempre più giù.

Buona Lettura di Che venga la notte di Alessandro Ceccherini.

Antonello Saiz

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