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La meccanica dei corpi. Intervista a Paolo Zardi

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La meccanica dei corpi è il nuovo libro di Paolo Zardi, uscito nel 2023 per la collana Iena di Neo edizioni. Cinque racconti lunghi che nascono da accadimenti, quasi delle epifanie, della realtà quotidiana. Eppure, nonostante la spinta a scrivere provenga dal tempospazio del reale quotidiano, il godimento e la «benedizione» di scrivere sta, per Paolo Zardi, proprio nella possibilità di sospendere tutte le leggi e le «costrizioni del quotidiano». È per questo motivo che, vario il reale varia è la finzione, e ogni racconto ha un suo caratteristico andamento e una sua propria difficoltà: il colpo di genio consiste nell’accogliere la difficoltà e di mettere da parte l’abito razionale del tutto-va-spiegato per ‘abbandonare’ chi legge nella vaga atmosfera del sogno, del magico, del soprannaturale. Paolo Zardi non perde mai di vista l’idea della letteratura come condivisione, come una festa, «un pranzo di nozze, con le sue portate variegate»: viene in mente un convivio, un ideale ritrovo in cui, tra le varie prelibatezze, ecco lo scrittore Zardi che coccola e fa riflettere, sorridere e commuovere. Chi legge, spesso, prova dei veri scossoni, perché la scrittura di Zardi, scorrevole, piacevole, ci mette davanti aspetti di noi che si tende sempre a evitare, nascondere, quasi in una forma di autocensura e invece, per l’autore, la censura «non è un problema che chi scrive dovrebbe porsi.» Anche in questi racconti, come nella sua produzione precedente, Zardi sa oscillare amabilmente tra legge e desiderio, tra la realtà quotidiana, a volte crudele, degli esseri umani, e la leggera complicazione di un mondo altro, sognante e parallelo, un’altalena che sa trastullarci «tra il richiamo suadente del bello e quello impellente del necessario», tra il corpo effimero di una storia e l’anima metaforica, imperitura, che include tutte le storie…

Gianluca Garrapa

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Genesi e desiderio del tuo libro.

Poiché “La meccanica dei corpi” è una raccolta di cinque racconti lunghi – delle novelle, si potrebbe dire – esistono almeno cinque genesi diverse, a cui se ne aggiunge una più ampia di costruite qualcosa che fosse in grado di raccogliere queste diverse sfaccettature di realtà.

Dei cinque racconti, il più antico è “Il signor Bovary”, nato una decina di anni fa sulla spinta di una crisi personale e creativa profondissima – la scrittura di quella storia rappresentò il punto di svolta, una sorta di rinascita. Dietro gli altri, ci sono motivi più consueti: “Il risveglio” nasce dalla lettura della tragedia “Alcesti” di Euripide; “L’era della dignità borghese” da certi ricordi giovanili, quando lavoravo in una pizzeria in mezzo al nulla della campagna veneta, a due passi da una scuola elementare dedicata a Santa Maria Goretti – si percepiva, dietro la quiete del paese, una carica inespressa di violenza conservatrice – e la mia esperienza di vita rutilante a Milano, nei primi anni duemila; “Fantasmi” da una chiacchierata a tavola con i miei figli, ancora ragazzini (“mi suggerite una storia di paura?”, “certo, papà: nel giardino dietro casa è nascosta una cassa con un terribile segreto”); e, infine, “Non passa invano il tempo” è stato concepito durante una bellissima presentazione di Alessandro Zaccuri alla quale avevo assistito a Cagliari.

L’idea di mettere insieme queste storie scaturisce, invece, da una chiacchierata con i Neo durante il Salone del Libro di Torino, quello “strano” dell’ottobre 2021. Mi hanno lanciato una sfida che io ho provato a raccogliere.

Quando scrivi, godi?

So che per molti autori scrivere è una sofferenza e che qualcuno ha detto che il piacere non sta nello scrivere, ma nell’aver scritto. Nel mio caso, scrivere rappresenta una sorta di benedizione: il tempo rallenta e cambia consistenza, il mio corpo diventa leggero. È una liberazione dalle costrizioni del quotidiano, la possibilità di avere uno spazio dove le leggi della meccanica newtoniana, della termodinamica, dell’elettromagnetismo, la relatività generale e le equazioni di Schrödinger cessano di esercitare il loro dominio e soccombono alle leggi dell’estetica e del cuore – in scrittura, una simmetria illuminante ha più potere della legge della gravitazione universale: i corpi cadono se e quando lo decido io.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?

Una caratteristica della scrittura creativa è che gli obiettivi sono tutti all’interno della mente dell’autore, il quale si impone, in piena autonomia, una sfida con la quale misurarsi. Ci sono racconti che nascono quasi di getto, come se fossero già pronti da qualche parte – tipo quei prati nei quali ci immaginiamo scorrazzare i bambini non ancora nati, creature ancora innocenti, in perpetua attesa che un amplesso ben riuscito li strappi da quel limbo e li scaraventi nella terra polverosa; e ce ne sono altri, invece, che richiedono enormi sforzi, ed incredibilmente eterogenei. Nel caso di questo libro, il racconto più complesso, l’ultimo che è stato partorito, è “Il risveglio”, la storia di una coppia messa in crisi dalla morte, e poi dalla resurrezione, di uno dei due coniugi. Avevo un’idea chiara di cosa volessi mettere in scena, ma nonostante diversi tentativi non riuscivo a mettere a fuoco l’intuizione iniziale, così come la percepivo. Alla fine, ho scelto di accogliere questa difficoltà, che ho ritenuto essere intrinseca, cioè costitutiva del problema drammaturgico che stavo affrontando, lasciando dentro una forma di vaghezza, o di incompiutezza, come se in un quadro il volto di un personaggio rimanesse tratteggiato, o immerso in una misteriosa zona d’ombra. Da ingegnere, tendo a voler spiegare tutto; quando scrivo, cerco, nei limiti del possibile, di abbandonare questo abito mentale.

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Per la sua particolare struttura – due racconti lungi, uno breve, due racconti lunghi, un ringraziamento finale – non ho dubbi: è un pranzo di nozze, con le sue portate variegate, la cura per i dettagli, il sorbetto in mezzo, e le bomboniere prima dei saluti.

Che rapporto hai con la censura?

In “Inganno”, uno dei personaggi, che sappiamo chiamarsi Philip, ha un’accesa discussione con la moglie, che ha trovato un testo che sta scrivendo (per inciso, questo testo è esattamente quello che stiamo leggendo anche noi) e lo accusa di avere davvero un’amante. A un certo punto Philip dice:

Cosa pretendi, che faccia il poliziotto di me stesso? Che mi freni davanti a questa specie di impulso per paura… per paura di cosa? Della pruderie di chissà quale mente illuminata? Be’, non accetterò mai censure del genere né da te né da nessun altro!

E più sotto, in modo ancora più preciso:

Mi rappresento coinvolto nella cosa, perché essere solo presente è troppo poco. Non è questo il mio modo di lavorare. Compromettere un «personaggio» non mi porta dove voglio arrivare io. Quello che arroventa davvero la situazione è il compromettere me stesso. Rende l’accusa, come dire, più succosa, il fatto di infangare la mia persona

Nella definizione di sé come autore, si passa anche attraverso il confronto con i grandi. Questo brano, tutto questo libro, e in generale l’intera opera di Roth, hanno contribuito a definire il mio rapporto con la censura: e la conclusione è non è un problema che chi scrive dovrebbe porsi.

A livello più generale, la censura del passato, quella che poggiava su fondamenta solide, ha paradossalmente contribuito al successo proprio di quei libri che metteva, o tentava di mettere, all’indice. Capolavori come “Madame Bovary” o “Ulisse” sono stati intercettati prima dai censori che dalla critica letteraria.

La censura contemporanea è più sottile, perché senza nome, e allo stesso tempo più grossolana. Non esistono tribunali ma, piuttosto, una sorta di grande piazza dove si condannano le opere scomode tramite il meccanismo della gogna. Ellis si domanda, in una recente intervista, quale possa essere il percorso di un giovane autore in un mondo in cui ciò che disturba, offende, crea sgomento viene costantemente rimosso, abolito, cancellato: si chiede “non era forse questo, ciò che cercavamo quando leggevamo? Qualcosa che ci scuotesse?”

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Non è un mestiere, perché vivo di altro; e non credo che la contestazione dello status quo rientri tra i miei obiettivi di autore – cerco, nel mio piccolo, di portare avanti piccole battaglie di civiltà, ma in altri modi, con altri strumenti. Per cosa scrivo, quindi? Nabokov diceva che l’arte non è feconda se non è futile, ma concordo solo fino a un certo punto con questa visione dell’arte come mera espressione estetica; d’altra parte, credo che un romanzo che si pone come obiettivo quello di cambiare il mondo finisca inevitabilmente per perdere la sua stessa ragione di esistere come “manufatto artistico”, scivolando, anche suo malgrado, nel grande calderone della propaganda delle idee. Forse scrivo perché adoro l’ebbrezza dello stare in equilibrio tra queste due spinte, tra il richiamo suadente del bello e quello impellente del necessario.

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