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Letizia Muratori anteprima. Una vita da donna

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Letizia Muratori è in libreria con Una vita da donna, edito da La nave di Teseo. Giornalista e scrittrice romana, la Muratori esordisce nel 2004 con il racconto Saro e Sara. L’anno successivo pubblica il suo primo romanzo, Tu non c’entri (Einaudi Stile Libero), a cui sono seguiti La vita in comune (Einaudi Stile Libero 2007), La casa madre (Adelphi 2008), Il giorno dell’indipendenza (Adelphi 2009), Sole senza nessuno (Adelphi 2010), Come se niente fosse (Adelphi 2012), Animali domestici (Adelphi 2015), Spifferi (La nave di Teseo 2018) e Carissimi (La nave di Teseo 2019). Vivere da donna è una conquista quotidiana, oltre l’identità di genere, oltre il pregiudizio, oltre il sesso biologico. Un’attitudine a mettere in gioco le versioni molteplici dell’io, scegliendo quale far emergere senza limiti di età. Così accade a Zoe, che dopo sessantadue anni si spoglia dei vestiti maschili per indossarne di femminili, innescando una catena di eventi, di sensazioni che punta dritto al cuore. Senza più vergogna sono quei “momenti rubati” in cui dava vita alla donna che sognava di diventare, rivendicando “un passato di cui era stata spettatrice.” Così è per la regista Doris Wishman, rimasta vedova improvvisamente, e “non era certo una nostalgica, viveva alla giornata, cercava di intercettare la moda del momento e se possibile di cavalcarla”. In momenti di difficoltà economica dal cinema si proiettava, con lo stesso interesse, a vendere oggettistica dedicata in un sexy shop. “Il modo di conciliare sanità e piacere Doris lo trovò nel cinema. In quel cinema povero e artigianale, fatto di innesti, tagli e battute fuori campo.” Così è per Giovanna “l’affidabilità in persona” a caccia per Roma di immagini. Giovanna dal cuore ospitale, atletico, sempre propenso “a battere un record”, che “non sarebbe stata in grado di sopravvivere alla morte del suo cuore.” Così è per la stessa autrice che si lascia vivere e sorprendere e si immerge nel dipinto di Lilia “la pietà celeste, l’edificio dove siamo tutti schedati, protetti e governati da angeli impiegati.”

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Doris Wishman non ha mai rivelato la sua età, e non vedo perché dovrebbe farlo qualcun altro. Basti sapere che nel 1960, quando uscì il primo dei suoi trenta titoli, non era più una ragazzina. In più, era vedova: un paio d’anni prima le era morto il marito, Jack Abrams. I due non erano sposati da molto e vivevano in Florida. Anche Pearl e David – sempre loro, la sorella e il cognato – si erano traferiti a Coral Gables, ma ora era tutto diverso: Doris quel famoso fidanzato che cercava l’aveva trovato. Jack non era un attore del gruppo di Strasberg, pazienza, del resto una segretaria in pausa pranzo chi può incontrare a Midtown? Un pubblicitario, magari nemmeno tanto scarso. In Florida, a inventare campagne per quelli del real estate, mica ci andavano tutti. Jack era bravo, perbene, più giovane di lei. Pare di vederla, Doris, a bordo piscina, sotto il sole, con quegli occhiali nerissimi e compatti: le servivano a nascondere la gioia. D’accordo, il sollievo, che è la forma di gioia più tangibile che abbiamo. Certo Doris non rimpiangeva il clima di New York, lo aveva sempre temuto.

Quando i suoi fratelli uscivano di casa senza sciarpa, li immaginava già a letto con la polmonite. Più che freddolosa era terribilmente apprensiva, ragion per cui non aveva mai voluto figli. Nemmeno Jack ne voleva, o almeno così le assicurava, forse solo perché l’amava. Da lontano e amata, a Doris non mancava New York, tanto meno le telefonate dei registi: quelle pittime che si sfogavano con lei ai tempi in cui faceva la segretaria, la chiamavano e pretendevano di sapere se in una grindhouse di Baltimora, quella sera, proiettassero il loro film. Doris era sollevata, felice, ma non era sorda, né cieca, dunque non poteva esserle sfuggito il chiasso che aveva fatto Garden of Eden. Nel ’54 quel titolo scandaloso era uscito in tutte le sale del paese. Sullo schermo si vedevano Eve nude, sebbene mai di fronte, sempre fatte a pezzi, come le pagine di un giornaletto osé strappate da un puritano pentito. Si vedevano anche gli uomini, gli Adami, con l’asciugamano di spugna drappeggiato in vita, a coprire i genitali. Ma in quelle immagini non c’era niente di osceno, al contrario, il film era istruttivo, salutista, perfino sportivo, perché girato in un campo di nudisti. La censura non aveva potuto bloccarlo. Il nudo ripreso in quella cornice era legale. O meglio, non c’era niente che lo vietasse. Walter Bibo, il produttore di Garden, che Doris aveva probabilmente conosciuto negli uffici della Classic Pictures, sapeva il fatto suo. E chissà Max, il cugino, quanto ci sformava: a lui non era venuta quell’idea, era lì che si dava arie importando roba inglese, roba dall’Europa, mentre in tutte le sale del paese circolava, impunito, il giardino dell’Eden. Avrebbe potuto pensarci Max – doveva essersi detta Doris, cercando gli occhiali neri sul fondo della borsa. Magari ne avevano anche parlato con Pearl, del colpo messo a segno da Bibo. Le due sorelle si dicevano tutto quello che succedeva a New York: lì succedevano le cose e si moriva d’infarto, mentre in Florida si viveva e basta, magari a lungo, e non succedeva niente. Purtroppo l’infarto venne anche a Jack, e Doris rimase così, a sentir lei: con tutte quelle ore vuote da riempire. Ragionava a ore, l’unità di misura del dolore, del lutto, ma anche delle segretarie. Immaginare un futuro in termini di giorni, mesi e anni ai suoi occhi era di nuovo un azzardo, non se lo poteva più permettere. Nessuno sa cosa accadde esattamente durante quelle ore vuote, sembra che Doris vedesse il marito girarle intorno ancora vivo, e questo, parole sue: non era sano. Doveva inventarsi qualcosa che la tenesse occupata, e così chiese ventimila dollari a Pearl.

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