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Lucie Azema anteprima. Le strade del tè. Sorseggiare il tempo

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Dalle sue origini in Cina fino allo sfruttamento da parte degli inglesi, il tè, bevanda secolare, è stato un simbolo tanto del viaggio quanto dell’immobilità.

Questa dualità ha ispirato la giornalista e viaggiatrice francese, Lucie Azema (1989), autrice di , tradotto da Nunzia De Palma (Edizioni Tlon, 2023, pp. 208, € 16).

Lucie Azema, dopo aver vissuto in Libano, India e Turchia, si è trasferita a Teheran nel 2017. Ha contribuito con articoli a Courrier Expat e Courrier international. Per Edizioni Tlon, ha precedentemente pubblicato Donne in viaggio: Storie e itinerari di emancipazione.

Questo secondo libro, il cui titolo originale, L’usage du thé, omaggia L’Usage du monde di Nicolas Bouvier e Thierry Vernet, offre un resoconto sensibile e dettagliato che risuona con la nostra umanità.

Il tè ha avuto una storia movimentata, proprio come le persone che lo bevono, e l’autrice ha deciso di seguire questo viaggio dalle molteplici sfaccettature. Per molti, è semplicemente un sacchetto immerso in acqua calda, mentre per altri rappresenta un rituale immutabile, che inizia con la selezione delle migliori foglie di Camelia sinensis. Ma molto prima di giungere nelle nostre tazze, il tè ha percorso una storia travagliata, personificata da una strada che si estende per migliaia di chilometri.

L’esperienza del tè è innanzitutto una storia di strade e viaggi, e i bevitori di tè formano una sorta di confraternita, di cui fa parte anche la grande viaggiatrice Lucie Azema: “La filosofia del tè condivide quindi con quella del viaggio un punto fondamentale: l’attenzione all’istante vissuto, all’istante presente. Attraverso l’osservazione sensibile dei movimenti della natura, delle stagioni, dell’ascesa e della discesa del sole all’orizzonte, il momento del tè permette di ancorarsi a un’immensità temporale.”

Questa pianta ha attraversato le steppe dell’Asia centrale e i mari del mondo, portando con sé una moltitudine di personaggi: carovanieri sulle Vie della Seta, coloni, spie, botanici, poeti, viaggiatori, suffragette, cortigiane, schiavi e raccoglitori di tè.

Ma se, da un lato, il tè porta con sé l’entusiasmo dell’avventura, dall’altro viene paradossalmente consumato in momenti di calma, sospesi fuori dal tempo. È proprio questa tensione che interessa a Lucie Azema: “Andare dove non sono, ritornare dove non sono più, un tira e molla continuo, un negoziare con i miei valori, con le idee a cui credo. È esattamente ciò che ha fatto il tè: partire, tornare e, nel frattempo, inciampare. Ma, sempre, trasformarsi a contatto con l’alterità.”

Attraverso una narrazione sensibile, tra spostamenti fisici e immaginari, l’autrice traccia una filosofia del viaggio che ci invita a abbracciare il nostro spirito nomade, ma anche a cogliere il valore delle soste e a rinforzare gli ormeggi.

Carlo Tortarolo

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Uno c’era, uno non c’era. Così si aprono le storie ai confini del mondo, le storie situate all’Est del mondo. Con questa formula cominciano tutti i racconti persiani, l’equivalente del nostro “C’era una volta”. Yeki bud, yeki nabud. Uno c’era, uno non c’era. È il canto dei mendicanti che passano sotto le finestre per raccontare storie, ai quali si cala una banconota le sere senza luna, quando la città sembra schiacciata sotto i singhiozzi. All’imbrunire, quando giardini si coprono d’ebano e i contorni del salotto si trasformano in rive insondabili, queste poche parole invitano a rannicchiarsi attorno al korsi, un antico elemento d’arredo tipico delle case persiane: una sorta di tavolino sotto cui si sistema un braciere, seppellito poi sotto tovaglie e coperte. Subito appare il corteo delle tazze di tè, melograni e pistacchi, poi, finalmente, si sciolgono gli ormeggi. «Uno c’era, uno non c’era». Con questa frase, che esprime allo stesso tempo la presenza e l’assenza, hanno inizio le strade immobili.

Qualche anno fa, conclusi gli studi, avevo trovato lavoro come commessa in un negozio di tè della rive gauche, a Parigi. Quell’episodio della mia vita mi sembra tutt’oggi una parentesi magica, una fase d’iniziazione intensa durante la quale ho potuto dare sfogo a una curiosità vorace. Per quanto possa sembrare insolito, ho l’impressione che quel periodo abbia rappresentato anche una serie di viaggi. Nel retro del negozio, uno spazio minuscolo invaso dai sacchi di tè dove io e i miei colleghi passavamo le nostre pause e assaggiavamo i nuovi arrivi, sul mio armadietto avevo attaccato un’immagine dell’avventuriera Alexandra David-Néel. Questa scelta non era solo dovuta all’ossessione che nutrivo all’epoca per questa figura. David-Néel era anche una grande consumatrice di tè, ed è proprio nei testi che scrisse mentre esplorava il Tibet all’inizio del xx secolo che avevo scoperto per la prima volta l’esistenza del po cha, il tè al burro di dri (la femmina di yak). David-Néel scrive: «È la volta del tè. Strappo un pezzettino della mattonella compressa, dura come una pietra, fatta sia di legno che di foglie di arboscello. Questo viene un po’ frantumato nella mano e gettato quindi nell’acqua: dopo poco che bolle vengono aggiunti sale e burro. In effetti è una seconda minestra, tanto più che nelle nostre ciotole ci aggiungiamo la tsampa».1 Durante il viaggio a Darjeeling, dove vive una grande comunità tibetana rifugiatasi lì negli anni Cinquanta in seguito all’invasione cinese del Tibet, ho voluto provare anch’io questa strana bevanda, con la testa piena dei libri di David-Néel. Quando la proprietaria dell’albergo ha poggiato davanti a me questa zuppa cremosa – un composto che sembrava più latte che tè –, ho avuto la curiosa impressione di catapultarmi in un romanzo d’avventura. Ero seduta lì, nella luce tranquilla del pomeriggio che diventava sera, le mani attorno a una tazza calda poggiata su una tovaglia di plastica, in lontananza il suono di un piccolo televisore accompagnato dal fischio dell’enorme bollitore in rame dietro il bancone. Ero l’immagine stessa dell’immobilità felice, eppure quella tazza di tè si era già impadronita della mia immaginazione, illuminava visioni lontane, mi metteva in movimento. Senza saperlo, o senza esserne cosciente, mi ero imbarcata per un lungo viaggio.

L’esperienza del tè è sempre stata profondamente legata a quella delle strade e del viaggio. Scoperta nel sud della Cina migliaia di anni fa, questa bevanda ha dovuto spezzare la linea dell’orizzonte, attraversare le steppe dell’Asia centrale e i mari del globo per arrivare fino a noi. Da tempi immemorabili il tè evoca una serie personaggi che hanno partecipato alle sue avventure: cantastorie, marinai, carovanieri sulla Via della seta, spie, botanisti, poeti, viaggiatrici e viaggiatori, cortigiane, facchini, schiavi, raccoglitrici. Il suo commercio ha contribuito a modellare spazi e paesaggi. Il tè è una bevanda in movimento, che procede da Oriente verso Occidente, in direzione opposta rispetto alle grandi ondate di viaggio della Storia.

1 A. David-Néel, Viaggio di una parigina a Lhasa, a cura di E. Gut, Voland, Roma 2013, pp. 166-167.

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