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Mahmood Mamdani. Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti

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Lo Stato-nazione e lo Stato coloniale si sono creati vicendevolmente. Il colonialismo e lo Stato moderno hanno la stessa data di nascita dello Stato-nazione, che l’autore individua nel 1492 e non nel 1648 come sovente indicato. Il nazionalismo non ha preceduto il colonialismo. Né il colonialismo fu lo stadio più alto o finale nella formazione di una nazione. Si costituirono reciprocamente.

Dal Nuovo Mondo al Sudafrica, dalla Germania a Israele, fino al Sudan, gli Stati coloniali e gli Stati-nazione si sono costituiti sulla politicizzazione di una maggioranza religiosa o etnica e a spese delle minoranze.

Il modello di tutto ciò, una sorta di prototipo, è emerso in Nord America, dove il genocidio e l’internamento nelle riserve hanno creato sia una sottoclasse permanente di nativi sia gli spazi fisici in cui le nuove identità di immigrati si sono cristallizzate come nazioni di coloni.

In Europa poi, sostiene Mamdani, questo modello sarebbe stato utilizzato dai nazisti per affrontare la questione ebraica e, dopo la caduta del Terzo Reich, dagli Alleati per ridisegnare i confini degli Stati nazionali dell’Europa orientale, ripulendoli dalle loro minoranze. Attraverso la marginalizzazione degli arabi palestinesi, i coloni sionisti hanno seguito l’esempio americano: il risultato è stato un altro ciclo di violenza che ancora non ha fine.

In Né coloni né nativi Mamdani rigetta il modello affermato a Norimberga, che individua i singoli responsabili senza mettere in questione il nazismo come progetto politico e quindi la violenza stessa dello Stato-nazione.

Non una giustizia penale per i colpevoli ma un ripensamento della comunità politica per tutti i sopravvissuti: vittime, colpevoli, spettatori, beneficiari. A partire dal progetto incompiuto della lotta anti-apartheid in Sudafrica, l’autore invita a immaginare uno Stato senza nazione.

Lo Stato moderno è spesso associato alla tolleranza. Esso è tanto un prodotto quanto un garante della tolleranza, tra gli Stati e al loro interno.

In Europa, la tolleranza emerse dopo Vestfalia come la chiave per assicurare la pace civile all’interno dello Stato-nazione. Le minoranze in patria venivano tollerate in cambio della loro lealtà politica, il che in pratica significò che venivano tollerate nella misura in cui erano percepite dalla maggioranza nazionale non come una minaccia.

Questo regime di tolleranza ha consolidato la struttura dello Stato-nazione, definendo il rapporto tra maggioranza nazionale e minoranza. È questa struttura di tolleranza a essere considerata la definizione del carattere liberale della modernità politica in Europa. Nelle colonie d’oltremare e negli insediamenti di coloni, dove non c’era una chiara divisione spaziale tra nazione e non nazione, la modernità politica e il suo liberalismo significarono qualcos’altro. Significarono conquista. Occupazione.

Abbracciare la modernità significa abbracciare la condizione epistemica che gli europei hanno creato per definire una nazione come “civilizzata”, e quindi giustificare l’espansione della nazione a spese degli “incivili”. La sostanza di questa condizione epistemica risiede nelle soggettivazioni politiche che essa impone.

La violenza della modernità postcoloniale rispecchia la violenza della modernità europea e del dominio diretto coloniale. La sua manifestazione principale è la pulizia etnica.

Il Sudan è il principale esempio di modernità postcoloniale in cui le strutture razziali e tribali imposte dagli inglesi sono diventate la base per esplosive guerre civili dopo l’indipendenza.

Come altri progetti nazionalisti, il nazionalismo postcoloniale è stato profondamente violento. In effetti, la violenza del progetto militante nazionalista è spesso percepita come una seconda occupazione coloniale.

Nonostante il loro scontro sanguinoso, colonialismo e anticolonialismo condividono una premessa comune: la società deve essere omogeneizzata per costruire una nazione.

Ecco allora che Mamdani si chiede se la violenza impiegata nella costruzione della nazione sia un atto criminale, che richiede procedimenti giudiziari e punizioni, oppure sia un atto politico, la cui risposta deve essere una nuova politica non nazionalista.

Egli considera la violenza estrema come politica e, quindi, ritiene che un approccio «delitto e castigo» abbia maggiori probabilità di aggravare, piuttosto che disinnescare, questa violenza.

La tendenza a pensare tutta la violenza come criminale, e la conseguente risposta a ogni violenza come tutela della legge, può essere ricondotta all’euforia intorno al presunto trionfo del modello liberaldemocratico alla fine della Guerra fredda.1 Poiché si presumeva che questo tipo di sistema politico costituisse la fase finale dello sviluppo politico, tutta la violenza sarebbe apparsa, da quel momento in poi, criminale.

Il movimento anti-apartheid in Sudafrica ha contrastato la tendenza del dopo-Guerra fredda. La grande conquista di questo movimento è consistita nel comprendere la violenza dell’apartheid come politica, cercando una soluzione politica piuttosto che criminale. Questa fu la fine negoziata dell’apartheid, che portò all’emergere della democrazia non razziale.

Ovviamente l’autore non afferma che le società debbano o possano fare a meno della giustizia penale, ma che la riforma politica deve avere la precedenza, perché la richiesta di giustizia penale entro i parametri dell’ordine politico esistente lascia quest’ultimo intatto. Solo quando il sistema politico sarà decolonizzato, cioè quando le identità saranno svincolate da status permanenti di maggioranza e minoranza, esso sarà in grado di garantire equità.

Il che non vuole certo dire che le varie identità devono scomparire, tutt’altro. Ovvero che, per il sistema politico, tutti i cittadini devono avere gli stessi diritti e doveri, indipendentemente dalla loro etnia di appartenenza, dalla loro identità, dalla loro cultura, religione o altro.

Decolonizzare la politica attraverso il riconoscimento di un’identità condivisa di sopravvissuti non richiede che tutti fingano di essere uguali. Richiede invece che si smetta di accettare che le differenze identitarie debbano definire chi beneficia dello Stato e chi ne resta escluso.

Uno degli obiettivi principali del libro è descrivere nelle sue implicazioni la colonizzazione del politico e come potrebbe essere raggiunta la sua decolonizzazione.

Il politico, per esempio, è colonizzato nel Nord America.

L’eliminazione fisica degli indiani dell’emisfero occidentale fu il primo genocidio della storia moderna ed è probabilmente il più brutale e il più completo mai compiuto, perché ha causato la morte di circa il 95per cento di una popolazione precolombiana di almeno 75milioni di persone.2

Piuttosto che cittadini uguali negli Stati Uniti, gli indiani d’America sono persone sotto tutela del Congresso. Nelle riserve sono governati da una legge separata, proprio come i popoli ritenuti tribali in Sudafrica erano storicamente governati da una legge distinta da quella che governava la maggioranza nazionale bianca.

Come i sud sudanesi, gli indiani d’America hanno interiorizzato la tribalizzazione e le strutture legali che ne derivano.

La colonizzazione poi prosegue in Israele attraverso la caratteristica ideologia coloniale moderna del sionismo. I coloni ebrei, sostenuti dallo Stato, proseguono aggressivamente la conquista nei territori occupati, il cui risvolto è l’espropriazione dei palestinesi. All’interno del territorio di Israele, lo Stato concentra i cittadini non-ebrei in città che sono escluse dallo sviluppo, proprio come gli Stati Uniti concentrano gli indiani nelle riserve e il Sudafrica concentrava i nativi nei Bantustan.

Anche in Israele la missione civilizzatrice è stata cruciale per la formazione e il mantenimento dello Stato-nazione. L’élite europea di Israele, gli ebrei ashkenaziti, ha cercato di civilizzare gli ebrei “orientali”, in particolare i mizrahim, o «ebrei arabi». Sono stati de-arabizzati, spogliati della cultura che condividevano con altri arabi e ora rappresentano alcuni dei più fervidi sionisti in Israele. Dimostrando, ancora una volta, come le vittime della modernità interiorizzino quella medesima mentalità. Israele è uno Stato-nazione la cui maggioranza nazionale, gli ebrei, è stata espulsa dall’Europa, dove erano l’Altro disprezzato, l’etnia di cui si doveva fare pulizia per fare spazio alla nazione.

Non è assolutamente necessario, sottolinea Mamdani, che maggioranze e minoranze siano obbligate a cambiare posto. La trasformazione del nativo in colono, della vittima in carnefice, non è qualcosa da celebrare, come tristemente attesta la storia di Israele. Piuttosto il punto risiede nel fatto che la storia fornisce risorse per rivedere le identità passate di maggioranza e minoranza, colono e nativo, carnefice e vittima. Le persone del presente, attraverso un impegno congiunto con i fatti della modernità politica si possono convincere della necessità di scartare le identità divise che ancora caratterizzano questa modernità.

Tutte e tutti possono imparare a considerarsi «sopravvissuti» alla modernità politica, in altre parole prodotto di essa, ma non per questo necessariamente condannati a ripeterla e perpetrarla.

Ma allora come ha fatto a persistere così a lungo la modernità politica e perché è così difficile decolonizzare il politico?

Mamdani ritiene esserci un considerevole numero di forze che preservano la modernità politica rendendola, di fatto, invisibile. Queste forze sono epistemiche, sono idee che scoraggiano il riconoscimento di ciò che dovrebbe essere ovvio.

Una di queste idee, che emerge dal discorso anticoloniale, è che l’indipendenza dal controllo straniero sarebbe condizione sufficiente per garantire la fine politica della colonizzazione. Un’altra è la confusione tra immigrazione e insediamento coloniale: gli immigrati si uniscono alle comunità politiche esistenti, mentre i coloni ne creano di nuove.

Si cerca poi di far “scomparire” la storia e di sostituirla con un impulso universale chiamato «diritti umani».

Quando vengono commesse delle atrocità, gli attivisti per i diritti umani cercano i colpevoli, li nominano e li svergognano, magari riescono anche a farli mettere in prigione. Ciò che questi attivisti raramente cercano di fare è capire perché siano avvenute le atrocità o cosa ci dicano della comunità politica entro cui sono state commesse.

Nella condizione postcoloniale, la violenza estrema è molto spesso una violenza nazionalistica, poiché i gruppi etnici, organizzati come unità tribali separate sotto il colonialismo, si contendono l’accesso privilegiato ai beni pubblici. I diritti umani ignorano questo sfondo storico, depoliticizzando così la violenza e trattandola come mera criminalità.

Il modello criminale dei diritti umani contemporanei è stato inaugurato dai Tribunali di Norimberga dopo la Seconda guerra mondiale. I Tribunali si basavano sulla convinzione neoliberista avant la lettre secondo cui ogni violenza è un atto di individui. Norimberga ha effettivamente depoliticizzato il nazismo, attribuendo la responsabilità della violenza a persone particolari (perlopiù uomini) e ignorando il fatto che questi fossero impegnati in un progetto della modernità politica per conto di un corpo sociale: la nazione, il Volk.

Inoltre, sottolinea Mamdani, gli alleati che perseguirono i singoli nazisti a Norimberga si sono impegnati a ignorare le radici politiche del nazismo, perché queste radici sono anche quelle americane. Sia gli Stati Uniti sia il Terzo Reich erano progetti di costruzione della nazione. Gli alleati hanno anche cercato di proteggersi per le azioni che essi stessi hanno compiuto.

Ricorda l’autore di come, dopo la guerra, gli alleati si siano resi responsabili di molte atrocità simili a quelle che i tedeschi avevano compiuto, tra cui la pulizia etnica di milioni di tedeschi per tutta l’Europa centrale e orientale. La giustizia delle vittime in Europa, inoltre, ha inaugurato la modernità coloniale in Palestina, poiché la colpa dell’Occidente per l’omicidio di massa degli ebrei è diventata una giustificazione della fondazione dello Stato di Israele.

Se il nazismo fosse stato inteso non come un crimine, ma come un progetto politico dello Stato-nazione, avrebbe potuto esserci ancora un posto per gli ebrei in Europa, in Stati denazionalizzati vincolati all’eguale protezione di ogni cittadino. Invece, per Mamdani, il processo di Norimberga è stato disegnato tanto per proteggere gli alleati quanto per perpetuare un progetto di costruzione della nazione e dei suoi obiettivi di omogeneizzazione.

I tribunali per i diritti umani, espressione emblematica del trionfalismo del post-Guerra fredda che ha annunciato la Fine della Storia sotto forma di conquista neoliberista, portano avanti questa tradizione nel presente.

L’obiettivo della denazificazione a guida statunitense era affermare la colpevolezza del popolo tedesco. E questo fu un errore, per due ragioni almeno:

  • La nozione di colpa ha reso la violenza della guerra e dell’Olocausto una questione criminale e, pertanto, un’offesa contro lo Stato. Ciò ha precluso una resa dei conti con le radici politiche del nazismo e ha indebolito la possibilità di riforma, poiché i reati contro lo Stato non richiedono alcuna riforma, ma solo il ripristino della sua autorità attraverso azioni correttive contro i trasgressori.

  • Mentre molti tedeschi erano in realtà nazisti e molti altri beneficiavano delle politiche naziste, i tedeschi non erano, di fatto, colpevoli collettivamente.

Dopo la guerra, gli alleati si unirono ai loro ex nemici nel promuovere un nuovo sforzo di omogeneizzazione e di costruzione nazionale che procedeva proprio dal presupposto alla base dell’ideologia nazista. La base del pensiero nazista, non ripudiato da Norimberga, era che gli ebrei costituivano una nazione straniera in Europa. I tedeschi del dopoguerra, non meno degli americani e dei britannici, potevano facilmente abbracciare l’idea che Israele fosse la patria degli ebrei, separata dalla Germania e dall’Europa in generale. L’istituzione dello Stato di Israele fu la soluzione alla questione ebraica in Europa.

Con l’esperienza europea impressa in modo indelebile nella loro psiche, i coloni ebrei del dopoguerra in Palestina erano determinati a non essere mai più una minoranza, né lì né altrove. Per diventare una maggioranza, hanno condotto una campagna di pulizia etnica. Conosciuta in arabo come la Naqha (catastrofe), essa consisté nell’esilio di circa metà della popolazione araba del territorio che sarebbe poi diventato Israele, nel 1948. I palestinesi rimasti, o tornati dall’esilio, avrebbero formato una minoranza permanente in Israele.

Nell’analisi di Mamadani, è stata proprio l’esperienza storica dell’America con gli indiani a rendere pensabile il genocidio e la pulizia etnica in Germania e la pulizia etnica in Israele.

Il tempo trascorso dalla Seconda guerra mondiale ha visto un fiorire di discorsi intellettuali anticoloniali. Eppure, afferma Mamdani, quei ragionamenti non sono stati in grado di dare un senso all’estrema violenza postcoloniale. Gli intellettuali anticoloniali hanno preso spunto dalle riflessioni di Marx sulle rivoluzioni del 1848 in Europa.

La rivoluzione politica avrebbe dovuto spianare la strada alla rivoluzione sociale.3 La rivoluzione politica (o indipendenza politica) avrebbe conferito uguaglianza politica formale e cittadinanza, ma allo stesso tempo affinato l’esperienza e quindi la coscienza della disuguaglianza sociale, allargando gli orizzonti della lotta dal politico al sociale. Lo stadio finale di questo processo, secondo la teleologia della teoria anticoloniale, avrebbe dovuto essere la rivoluzione epistemologica, attraverso cui trasformare la coscienza stessa dell’essere, il vocabolario con cui comprendiamo il mondo che ci circonda. Eppure, sottolinea più volte Mamdani, in un numero crescente di casi, il raggiungimento della indipendenza politica e della cittadinanza formale non ha portato a mobilitazioni per l’uguaglianza sociale. Piuttosto, guerre civili ricorrenti sono seguite nel corso della costruzione delle nazioni.

I partecipanti a queste guerre civili non chiedono in primo luogo la redistribuzione e l’uguaglianza sociale, bensì combattono a favore dell’inclusione nella comunità politica o contro di essa.

Ciò è accaduto e accade perché ancora si segue la teoria di Marx, secondo la quale l’uguaglianza politica e sociale si sarebbe realizzata entro i limiti di una comunità politica preesistente. Mamdani afferma invece che è proprio questa comunità politica a dover essere modificata se si vuole raggiungere l’uguaglianza sociale.

Per ottenere giustizia per le vittime è necessario porre fine alle condizioni che le hanno consegnate a un trattamento ingiusto, e questo, per l’autore, significa finalmente decolonizzare. Ripensare non solo la giustizia ma anche l’ordine politico in cui viene perseguita. Ottenere giustizia non è solo il progetto normativo di immaginare un mondo migliore. Per realizzarlo, questo mondo migliore, è necessario comprendere la costruzione del mondo in cui viviamo, composto da minoranze permanenti, riprodotte attraverso la politicizzazione dell’identità sotto la struttura dello Stato-nazione.

Il disfacimento della permanenza delle identità politiche inizia con il riconoscimento che esse non sono naturali e non sono per sempre. Se un numero sufficiente di persone riflette a fondo sulle conseguenze violente di queste lotte di potere identitarie, allora avrà l’intuizione di ripensare e rifare il mondo. Mamdani non conosce i termini di questo cambiamento, nessuno può. Egli si sente solo di avanzare delle raccomandazioni:

  • Riformare la base nazionale dello Stato garantendo un solo tipo di cittadinanza e facendolo sulla base della residenza piuttosto che dell’identità.

  • Denazionalizzare gli Stati attraverso l’istituzione di strutture federali in cui l’autonomia locale permette alla diversità di crescere.

  • Allentare la morsa dell’immaginazione nazionalista insegnando la storia dello Stato-nazione, contrapponendo il modello politico a quello criminale e rafforzando la democrazia al posto dei rimedi neoliberali sui diritti umani.

Né la storia né l’identità devono essere permanenti e la decolonizzazione non deve essere un’illusione romantica.

Irma Loredana Galgano

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Mamhood Mamdani, Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti, Meltemi, Milano, 2023.

Traduzione di Claudio Feliziani.

Titolo originale: Neither siettler nor native. The making and unmaking of permanent minorities.

L’autore

Mahmood Mamdani: Herbert Lehman Professor of Governement alla Columbia University. Dedito allo studio comparativo del colonialismo tra scienze politiche e antropologia.

1F. Fukuyama, The end of History and the Last Man, Free Press, New York, 1992; tr.it. di D. Ceni, La fine della storia e l’ultimo uomo, UTET, Torino, 2020.

2D.E. Stannard, American Holocaust: The Conquest of the New World, Oxford University Press, Oxford, 1992; tr.it. di C. Malerba, Olocausto americano: La conquista del nuovo mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2021.

3K. Marx (autore), D. Fusaro (curatore), Sulla questione ebraica – Testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano, 2007.

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