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Marco Vichi inedito. Gentile famiglia Levi

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10 aprile 1992

Gentile famiglia Levi,

non so come cominciare, mi sento un po’ in imbarazzo e immagino di disturbare, ma poi penso a cosa mi ha spinto a scrivere una lettera ai familiari di Primo Levi e ritrovo coraggio.

Premetto che sono uno scrittore completamente sconosciuto (ho pubblicato pochissimo), e quando mi capita di leggere un libro che mi fa avanzare nella conoscenza dell’uomo e di me stesso, sento il desiderio di scrivere – se è vivente – all’autore. Questa è la prima lettera che invio ai familiari di uno scrittore che non posso più raggiungere direttamente.

Vengo al dunque, che è un “dunque” forse complesso da raccontare, anche se dentro di me è infinitamente semplice: leggendo i libri di Primo Levi (purtroppo, soltanto dopo il 1987) ho provato il piacere indicibile di scoprire quanto un uomo possa essere lucido e meraviglioso nei confronti di se stesso. Il primo impulso è stato il desiderio inesorabile di fare tesoro del suo esempio, e dunque di cercare quanto più possibile di imitare quella preziosa disposizione: nella vita, e dunque – secondariamente – nella scrittura, che per uno scrittore sono un po’ la stessa cosa. Stento a credere che questo possa riuscirmi, non per mancanza di volontà, ma perché la volontà è garanzia solo di se stessa e non del risultato. Comunque sia, tendere al meglio di me non è certo un male, e la consapevolezza di non raggiungere l’obiettivo non la vivo come una sconfitta. Ognuno fa quel che può, ed è già molto.

La prima cosa a sorprendermi è stata – relativamente all’esperienza del Lager – la difficile strada intrapresa da Levi: l’analisi accurata al posto di ciò che invece hanno scelto molti altri, cioè lo sfogo. Molti sopravvissuti hanno raccontato la propria esperienza, ma con tutto il rispetto per ciò che hanno vissuto, la loro condizione di amareggiati irrimediabili, di irraggiungibili solitari, adatti ormai soltanto a punire indistintamente l’Uomo per ciò che di agghiacciante è stato ed è tuttora capace di commettere, non ha permesso loro di trasformare il vile metallo in oro. I loro scritti hanno fatto “passare in me” solo l’esperienza indiretta del rancore, e un documento terribile sulla crudeltà umana, ma nulla più di questo. In queste persone – e certo non le biasimo – l’esperienza del Lager ha prodotto come una sordità e una cecità senza scampo, una chiusura che impedisce loro di addentrarsi nelle profondità degli eventi vissuti, che ostacola quella comprensione “libera” capace di inglobare ogni cosa in un sistema dinamico di crescita e di maturazione.

Le loro parole rimangono a grondare dolorosamente sopra una scorza protettiva, perché per affondare i denti nel fango dell’umiliazione, ci vogliono un coraggio e un’umiltà difficili da sopportare. Dalle loro pagine esalano una sofferenza e una rabbia eterne e insanabili, incapaci però di insegnare all’uomo che può e deve migliorare. Nei loro scritti – pur terribili e dolorosi – viene dichiarata l’impossibilità, per chi non ha vissuto il Lager, di immedesimarsi in coloro che invece hanno dovuto vivere quell’inferno terreno, mentre al tempo stesso si avverte una feroce richiesta di immedesimazione, e questo contrasto sfocia in un’accusa contro il mondo intero. Dietro le loro parole serpeggia il rifiuto per qualsiasi discorso sui Lager da parte di chi “non ha vissuto” quella terribile esperienza, perché saranno inevitabilmente parole insufficienti e irriguardose. Soltanto chi l’ha vissuta “può sapere, capire e parlare”, e tutti gli altri devono tacere, e anche quando tacciono, sbagliano. Piangono la loro sofferenza non in lacrime ma in parole, additando come superficiale, insensibile e immeritatamente fortunato chiunque non abbia condiviso la loro esperienza, e chi si azzarda a fare un commento – qualunque esso sia – viene spostato di lato come un incapace o un egoista.

Primo Levi ha scavalcato tutto questo, con sofferenza ed eleganza intellettuale. È entrato nella sfera dei pochi eletti che rinunciano al “benessere” dello sfogo per diventare maestri del dolore e della verità di sé. Il microcosmo isolato e inumano del campo di sterminio cade a valanga sulla sensibilità di chi legge con l’imparzialità di un risultato di laboratorio, e ogni esperienza è raccontata, con tutti i sentimenti vissuti, nel rispetto del vero e attraverso la forma più alta, cioè – come lui stesso dice (anche qui lucido e vero) “con il massimo rigore e il minimo ingombro”.

Ciò che provo leggendo Levi è un sentimento compatto, ma insieme complesso. Dargli un nome unico mi è difficile: so che è un sentimento bello, forte e importante per me. Leggere Levi è un viaggio dentro l’uomo e dentro il suo mondo interiore, è un’immersione in verità che riescono a farmi piangere e ridere (per davvero), e spesso contemporaneamente… e si sa che il pianto è il riso nascono quando la ragione non è più sufficiente a smaltire certe emozioni, le quali deragliano verso manifestazioni “fisiche”.

Le pagine di Levi riescono a risvegliare certe parti di me che stavano dormendo: alcune addormentate da sempre, altre pronte a chiudere gli occhi appena smetto di tenerle sveglie. Altre volte la sua umana e delicata lucidità riesce a farmi vivere più pienamente e consapevolmente “cose” che già vivo. Attraverso di lui mi pare di osservare e capire e conoscere meglio anche ciò che già credevo di conoscere e di capire, relativamente a me o ad altro. Nel suo scrivere nulla è fuori posto, non potrebbe esserlo, perché nulla è “inventato” o falso, nemmeno le invenzioni.

Levi è un vero scrittore, lo è sempre stato, anche prima della deportazione, come possiamo vedere in alcuni racconti scritti prima del Lager. Ed è un grande scrittore anche al di là dell’esperienza del Lager, come ha dimostrato ad esempio con La chiave a stella, quel breve romanzo intriso di ironia, umanamente profondo, capace di raccontare il mondo anche attraverso esperienze lavorative assai personali.

Certe sue immagini per descrivere sentimenti e sensazioni hanno il potere di un seme nella terra, entrano in me e subito cominciano a radicare e a crescere in piena autonomia. Quando lui mi racconta “qualcosa”, apre dentro di me spazi dove nascono altri racconti, mi fa scoprire nuovi territori che non sospettavo di poter visitare.

Amo la sua ironia nobile, rispettosa di tutto e di tutti. La precisione che si accompagna alla delicatezza. Il massimo della sintesi, il massimo dell’evocazione. Percorrendo certe sue pagine mi trovo a camminare in luoghi a me lontani in ogni senso, ma accompagnato da un “pensiero” capace di farli diventare miei. Fondamentale è il modo in cui il “materiale narrativo” viene da lui osservato, soppesato, maneggiato: reso cibo per la crescita della mente (o dell’anima, come si preferisce). Ciò vale indifferentemente per gli scritti sul Lager e per ogni altro scritto, autobiografico e non. L’effetto è una continua e poderosa ondata di rivelazioni, una scintilla capace di accendere un fuoco che non si spegnerà più. Anche certe faccende che potremmo definire “già dette” (in lui una rarità), dalla sua mano alchimista vengono scomposte e ricomposte fino a diventare materia nuova e rivelatrice, così che “già dette” non sono più, e anzi mi appaiono come dotate di una luminosità maggiorata.

Levi raggiunge una sincera e spietata lucidità e al tempo stesso trasmette il piacere di viverla, di farla propria. Esce dal narcisismo e regala agli altri ciò che sa di poter regalare. Anzi, di “dover” regalare. Il gesto di scrivere (di voler raggiungere gli altri) può apparire in sé come una sottospecie dell’abuso e dell’imposizione, un tentativo di inoculare un po’ di se stessi negli altri, ma per qualcuno è esattamente il contrario: chi ha qualcosa da dire ha il compito di dirlo, e nel migliore dei modi. Così – io penso – è per Levi. Dopo aver letto i suoi scritti, non si può mai più essere uguali a prima. È questo che cerco, quando leggo.

In un periodo per me difficile su molti fronti, entrare in contatto con un’anima (una mente) bella e chiara come la sua, è stato un regalo del destino. Una mente bella e chiara nel senso di incapace di ipocrisia. Una mente che si alimenta di limpidezza, guidata dalla metodica e impietosa volontà di non rimanere impigliata nelle maglie dell’inganno.

Ed è proprio per questo che qualche sera fa mi è capitato di inalberarmi a difesa di Levi (forse con toni che lui non avrebbe usato), di fronte a una persona che sminuiva la sua capacità di raccontare “come stavano le cose” proprio per via del suo diretto coinvolgimento (che a mio avviso è comunque una banalità, un luogo comune che ho sentito ripetere spesso): insomma, ho impugnato il suo libro più famoso dicendo, forse un po’ troppo fanaticamente: “sta scritto qui, dunque è vero, perché un uomo come lui ha dimostrato in ogni sua parola la rara capacità di non lasciarsi mai travolgere dalle emozioni a danno della valutazione dei fatti. Nessuno può mettere in dubbio il suo amore per la chiarezza e il suo grande senso di responsabilità, che quasi certamente derivano da una naturale inclinazione ben coltivata e preservata nel tempo… Insomma di lui ci si può fidare!” Poi ho detto, con più calma, che prima di pronunciare simili stupidaggini su qualcuno, sarebbe bene leggere cosa ha scritto. Comunque sia, ricorderò sempre con piacere di aver difeso Levi da una calunnia colossale.

Sento per lui un sentimento di fraternità, e sento anche amicizia, ammirazione, stima, come se lo avessi conosciuto in un rapporto di reciproco affetto. È bello e confortante sapere che il mondo può partorire anche persone come lui. La morte in questi casi non può nulla: la sua parola – come quella di ogni scrittore vero – riesce a farmelo sentire vivo. Non voglio idolatrare un uomo, voglio semplicemente ringraziarlo per quello che i suoi scritti mi hanno dato di indimenticabile, per quello che, per merito suo, spero di continuare a imparare da me stesso.

E se parlare con lui non è più possibile, tanta è la forza di questo “grazie” da diventare tramandabile ai suoi discendenti, come i debiti o il Peccato Originale. E non nego che, scrivendo a Voi familiari, mi illudo di “raggiungere” Primo Levi in persona: ecco, il desiderio irragionevole di questa lettera credo sia essenzialmente questo.

Chiedo indulgenza per la galoppata sconclusionata, ma per quanto mi sforzi, sento che non mi sarà mai possibile dire su Primo Levi qualcosa che mi soddisfi, qualcosa di esaustivo (come sempre accade di fronte a un grande scrittore). Mi scuso anche per i molti superlativi e per l’enfasi generale, che sono spesso – in cattiva letteratura – il sintomo dell’assenza di un “sentimento vero” che viene rimpiazzato con facili sovrabbondanze. Ma qui non è così. Ho voluto cominciare a scrivere subito dopo aver letto una frase del Sistema Periodico che mi aveva serrato la gola con un nodo bello stretto, e il risultato è questo.

Ancora grazie

P. S. – Bellissime le righe (poche, ma indimenticabili come in genere può esserlo un’opera intera) sull’incontro con la donna che lo accompagnerà tutta la vita, e che – oltre al resto – trasformerà i suoi scritti “farraginosi e dolorosi” sulle atrocità del Lager in una “ricchezza” da analizzare e da interrogare: un regalo per tutto il mondo.

Marco Vichi

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