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Mario Schiavone. A tempo perso suonavo ogni giorno

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Un flusso continuo di nomi, date, ancora nomi, ancora date, numeri in rigoroso ordine diacronico dal quale non poter derogare per cercare di tampinare, niente di meno, colui-colei che viene raccontato-a, smaterializzandolo-a fino a renderlo-a un “dato che ha vissuto”: questo è il modo più diffuso (forse anche più naturale) di scrivere una biografia di un musicista, prediligendo l’aspetto compilativo, sposando magari anche una vocazione filologica tesa a ripotare alla luce le gemme (o presunte tali) nascoste nella sua produzione o le curiosità meno conosciute. Niente da dire, naturalmente, ma se volete leggerne una diversa, una che sia in grado di afferire altre sfere meno evidenti e tangibili, ma forse più adatte a dare vera contezza dell’avventura sentimentale di un uomo o di una donna tra le sette note, dovreste desiderare sentieri diversi. Magari più scoscesi, pieni di dislivelli e inciampi temporali, sui quali si può rischiare di scivolare uscendo dal filo logico della narrazione per ritrovarsi nel buio fitto di un bosco sconosciuto, la notte, quando ogni singolo barbaglio di stella, ogni fugace riflesso di luna, può trasformarsi nella storia luminosa che avreste davvero voluto leggere.

È esattamente questo avventurarsi per lampi improvvisi e affascinanti latebre che Mario Schiavone ha scelto per raccontare Franco Del Prete nel suo “A tempo perso suonavo ogni giorno” (Iod Edizioni, 2021, pp 113).

Il risultato? Lo potremmo definire una biografia “sentimentale”, che proprio dalla messa a nudo degli aspetti più intimi e realmente vissuti (“solo le cose mentali sono reali”, d’altronde, come ammoniva William Blake) trae i suoi maggiori motivi di interesse: mezzo secolo di carriera di un batterista (e paroliere) apprezzato in tutta Italia, ma certo amato come pochi nella sua Napoli, si trasforma infatti in un flusso di emozioni che spazza impetuoso sulla mera vicenda professionale per trasformarla in un resoconto del cuore. Ecco dunque che alla pur eccezionale parabola della Napoli Centrale e alla rimarchevole militanza-fondazione dei The Showmen, viene preferito il racconto di un artista che è prima di tutto un eterno ragazzo, vittorioso certo nella battaglia contro l’anonimato e la disperazione, ma non per questo libero dal groviglio di contrastanti vibrazioni (davvero è il caso di dire!) che fanno della sua anima una partitura ritmica ricca di vuoti e pieni disallineati e, come è giusto che sia, difficile da imbrigliare nella banalità di un pigro, ripetitivo rintocco.

L’autore, che ha raccolto le confessioni e i ricordi di Del Prete a pochi mesi dalla sua scomparsa, si sintonizza su questo mood così lirico e a tratti quasi “scazontico”, dando briglia sciolta a una penna immaginifica, che sempre parteggia per la liquidità della descrizione, per il cesello fatto di sbalzi e rifiniture, a scapito della tendenza “perimetrante” e povera di “voli” che ci si aspetterebbe in un contesto simile.

Ne consegue un’atmosfera di lettura decisamente romanzesca e certo permeata da agganci di pura poesia che rendono anche i passaggi di primo acchito meno interessanti, molto suggestivi e di sicuro ben disponenti al passaggio successivo, rivelando alla fine un’organicità di disegno che in molti paragrafi stupisce per il carattere assai personale.

Un libro fortemente consigliato a chi dalla musica e dalla scrittura a proposito della musica si aspetta panorami poco usuali e, proprio per questo, sempre pronti a mozzare il fiato.

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