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Marta Dillon anteprima. Aparecida

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Aparecida di Marta Dillon è un testo quantomeno necessario soprattutto nel variegato quanto complesso scacchiere occidentale, non solo dal punto di vista storico-sociale ma per una riscoperta della resistenza oscura tout court femminista, in ottica della tragica storia argentina e dei desaparicidos. Un romanzo che si presta ad essere anche un ibrido, un reportage sentimentale, un docu-fiction dal piglio giornalistico e sostenuto da uno stile ispirato e fotografico, vivido di immagini dolorose e annichilenti che condannano l’autrice ai tristi momenti della scomparsa della madre, sequestrata con la forza durante gli ultimi anni della dittatura militare. Una narrazione di vite interrotti e legami tranciati, perché Marta Taboada ovvero la madre dell’autrice Dillon, riappare con i suoi resti soltanto nel 2010 dagli abissi di una fossa comune. Un racconto di grande potenza viscerale che metabolizza la storia argentina in un nuovo scenario e con inedite suggestioni, ovvero una denuncia non solo alla banalità del male e del dispotismo ma un inno violento alle ideologie patriarcali. Attraverso l’esperienza personale, familiare e individuale, Marta Dillon illumina i volti dei dimenticati, delle abusate e di coloro che non hanno avuto la forza e l’occasione di ribellarsi. Aparecida si incanala nei romanzi di impegno di civile tipici del contesto rivoluzionario post anni ’80 ma si allontana dal solco della tradizione perché riveste di metafore e vivide iconografie femministe e materne la storia di un intero paese. A sottolineare l’importanza del volume Gran Via Edizioni ha affidato la traduzione e la prefazione alla professoressa Camilla Cattarulla, una delle voci più competenti e interessanti del mondo accademico, specializzata in studi dell’America latina del dipartimento di lingue, culture e letterature straniere dell’Università di Roma Tre.

Cristiano Saccoccia

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È successo adesso?»

«Sì, adesso, dieci minuti fa».

«Ma, come adesso?»

«Adesso, mi hanno appena chiamato, non so nient’altro perché

è caduta la linea».

«Ma… non capisco».

Fermín, il nostro anfitrione di Irún, non riusciva a capire di cosa stessimo parlando. Come poteva? Conosceva la storia del nostro Paese, sapeva che esistevano i desaparecidos, aveva suonato più d’una volta con una musicista che aveva il padre desaparecido. Ma non riusciva a capire il mio tremore. Ciò che sapeva non era sufficiente a spiegare il nostro turbamento.

«Incredibile! Siete in macchina, vero? Perché avevo pensato di portarvi in un posto che adoro, è veramente molto bello…» In fin dei conti si trattava di un cadavere, un cadavere che era tale da più di trent’anni. Così ci portò a fare un giro senza che io riuscissi a opporre la mia necessità di un telefono per poter finire la conversazione con Maco, tra le altre conversazioni possibili per avere conferma della notizia.

Raggomitolata sul sedile posteriore, cingendo Furio per dargli l’illusione di essere in braccio e non legato a un seggiolino, mi lasciai condurre alla spiaggia, il posto preferito da Fermín. La città si andava diluendo in un percorso sinuoso, attorniato dal verde, con la striscia azzurra dell’Atlantico settentrionale alla mia sinistra.

Dai sedili anteriori mi arrivavano stralci di conversazione: il riassunto della discussione dei giurati a San Sebastián, la sera in cui, nel corso di un recente viaggio, ci eravamo perse in una

strada panoramica, i progetti dell’anno, i figli di Fermín, la data del nostro ritorno a casa. Una conversazione del tutto normale tra due persone che avevano condiviso un evento e adesso uno scampolo di intimità. Io controllavo con il naso il pannolino di Furio, con la sfrontatezza escatologica delle madri. Mia mamma, di fatto, metteva un dito nel pannolino dei miei fratelli. Uno schifo, ma in epoca di pannolini di stoffa era meglio essere sicuri prima di cambiarli. Ci puliva anche il viso bagnandosi il dito con la saliva per toglierci le macchie visibili. Mamma.

Forse adesso avrei potuto ricongiungermi con una delle sue falangi.

«Si è addormentato?»

Lo tenevo stretto fra le braccia, eppure avevo dovuto guardarlo per rispondere ad Albertina. Lei doveva essersi resa conto del dormiveglia di nostro figlio, ma la domanda era un modo per rendermi partecipe della scena che avveniva nell’auto. Non ci riuscì. Io vagavo con lo sguardo per l’orizzonte, oltre il finestrino, in cerca di un cambiamento, una sfumatura di colore, qualcosa che replicasse quella minima fessura da cui stava per cominciare a gocciolare

quella che ero stata. E perché mai dovevo perdermi?

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