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Marzia Grillo anteprima. Il punto di vista del sole

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E’ in libreria Il punto di vista del sole, l’esordio pubblicato da Giulio Perrone editore di Marzia Grillo, redattrice ed editor di lungo corso. Una raccolta di racconti, tredici per l’esattezza, che svelano il reale quanto il fantastico nell’indagine minuziosa dei legami familiari, delle origini, dei sentimenti. Il lettore è condotto nella sala d’aspetto di un arrivederci dal suono sottile, quasi metallico, dell’ultimo volo; lungo il Canal Grande ove “la luce si rifletteva ovunque” tra le pedine di un backgammon; nei “contratti di affitto delle madri” che “non fanno del sangue un legame”; all’esterno dove “tutti i giorni e gli anni che avevamo risparmiato fino a quel momento si erano fusi in una massa d’acqua che non conosceva eco”. La sperimentazione modella il racconto che rimane sospeso nel suo procedere tra giochi surreali e lirici, come “bollicine minuscole che schizzano verso la superficie”, come l’incrinarsi dell’immaginazione che “chiude i battenti della speranza”. Il viaggio è assicurato, nelle parole, nello stile, nelle immagini utilizzate con (dis)incanto. La cognizione del tempo è smarrita e ci si scopre in trasparenza attraverso la luce che “è un miracolo”.

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Come dare il coltello ai bambini

Le cameriere non andavano mai bene, e lo splendore non andava mai bene. La brillantezza. Diceva che la brillantezza lo abbagliava. Usava tende spesse e lampadine a basso voltaggio, ma appena usciva noi aprivamo tutto, ci tenevamo in equilibrio sul balcone ad angolo, ci spogliavamo davanti alla finestra, accendevamo le luci e lasciavamo il frigorifero aperto per via dell’alone azzurrino. Da lui ci facevamo portare il caffè a letto. Nei ristoranti facevamo la parte delle figlie viziate. Poi loro si baciavano davanti alla cameriera, e io restavo l’unica figlia. Buttavo le posate a terra per attirare la loro attenzione, poi facevo finta di piangere di rabbia e lui pagava il conto con la carta di credito. Le cameriere mi asciugavano le lacrime con il grembiule. Avevamo tre bicchieri davanti e lui mi aveva versato da bere per prima. Poi aveva sorriso senza esagerare. «L’amore costruito sui compromessi è come i castelli di carte» aveva detto, quindi aveva fatto una pausa con la bottiglia alzata, ma la cameriera gliel’aveva tolta di mano per versare il vino. Lui ci aveva costrette ad andare via senza mangiare, inebetito da quella punta di presunzione.

Dormivamo bendati perché la fortuna è cieca. «Sono stanca di vederti al buio» mi aveva detto lei una volta, riconoscendomi a memoria. «Sai mica se è l’alba?» avevo risposto, con gli occhi chiusi comunque. La mattina presto, quando lui si faceva la barba, gli contavo le rughe. «Le tue rughe sono i nostri compromessi» avrei voluto dirgli. Invece gli toccavo il mento e ammettevo che era venuto perfetto. Avremmo dovuto scommettere di più sul futuro, invece di dormire nudi per la prima metà della notte. Poi a me veniva sete. Allora scavalcavo lui, svegliando lei. Uno dei due si alzava. Quando tornavo, non sapevo mai chi era rimasto. Non lo riuscivo a vedere, perché eravamo abbagliati dalla fortuna. Avevo le mie chiavi di casa, me le avevano date al ristorante. Lei mi aveva tenuto le mani dietro la schiena, lui mi aveva detto di chiudere gli occhi e aprire la bocca. Pensavo fosse un nuovo tipo di liquore, e invece era metallo freddo tra i denti. Era sensazionalismo, e narcisismo, era puro esibizionismo. La cameriera aveva riso. «È come dare il coltello ai bambini» aveva detto. Lui l’aveva fatta licenziare. I miei amanti erano andati in California – che era così lontana – lasciandomi la casa. E io ci avevo impiegato due giorni. Li avevo sistemati in salotto, sul balcone ad angolo, in equilibrio sui bicchieri. Erano nel lavandino del bagno, in bilico sulle cornici spesse dei quadri. Ce n’erano persino sotto il letto: castelli di carte di vario tipo, più e meno complessi, più e meno riusciti. Con tutte le luci accese, a rischiararne le coscienze. Con gli specchi che riflettevano dame e cavalieri all’infinito, e gallerie di compromessi, e il bianco dei bordi. Quindi avevo lasciato le chiavi sul tavolo, in uno spazio vuoto per miracolo, e mi ero chiusa la porta alle spalle.

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