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Moni Nilsson anteprima. Tanto amore non può morire

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La svedese Moni Nilsson è una di quelle narratrici che dimostra come si possano affrontare tematiche non proprio facili e riuscire a veicolarle verso un pubblico di lettrici e lettori. Un pubblico che, diciamo, ancora non ha sfiorato gli undici anni. Un pubblico che va educato ai sentimenti, anche quelli apparentemente ingestibili.

Accade per esempio in Tanto amore non può morire (pagg. 139, € 16), romanzo che esce oggi in libreria per la casa editrice Uovonero.

Tradotto da Samanta K. Milton Knowles, racconta di Lea e di sua madre, che si sta consumando a causa del cancro da cui è stata colpita.
Lea, che è il personaggio principale oltre che voce narrante della storia, lo scopre quando a parlargliene è la sua migliore amica fino a quel momento.
Noa – che in realtà si chiamerebbe Nora, ma da piccola aveva difficoltà a pronunciare la erre – l’ha vista in televisione, mentre presenzia al Gala del cancro, e glielo dice per trasmetterle il suo dispiacere. Ma basta questo perché Lea inizi a odiare Noa e a sfuggirla.

La odia con la stessa intensità con cui odia i dottori che non riescono a dare a sua madre «la medicina giusta». La odia come odia chiunque altro tenti di consolarla, intromettendosi fra lei e il risentimento rabbioso, irrazionale che la avvolge. La odia però con maggiore trasporto, diciamo.

In effetti perdere la madre all’età di dieci anni sarebbe una realtà durissima da affrontare per chiunque. Lea cerca di tamponare un evento così estremo cercando un gancio, un corrimano cui aggrapparsi. Lo trova nel momento in cui decide che odiare Noa è l’unico strumento per mantenere in vita la madre. Una speranza proveniente dalla più acuta delle disperazioni.

Ma attorno a questo dolore la vita continua a scorrere.

La casa di Lea è animata anche da un padre e da un fratello maggiore, Lucas. Anche loro cercano di fare fronte all’idea di dover perdere un affetto così grande, ma senza rifiutarsi al mondo anzi, mantenendosi come in osmosi con esso.

E poi, isolarsi non è possibile, nemmeno per Lea. C’è la scuola, la serata in discoteca, impegni da onorare, il sogno di andare nel mare del Sud per fare snorkeling.

Ci sono insomma momenti in cui tutto è dolore che si alternano a momenti di relativa tranquillità, dove le cose sembrano andare per il meglio. È in questi spiragli che Lea riesce a parlare in modo diretto con la madre o sentirle dire che è giusto «Non avere mai paura di dire quello che pensi. Non avere mai paura di niente». Perché «Non c’è tempo», la vita è breve e «Ci sono tantissime cose che non ho avuto il coraggio di fare e che ora non avrò il tempo di fare».

Scritto in prima persona, Tanto amore non può morire può essere definito come una educazione al sentimento della perdita, che costeggia una famosa poesia di Elizabeth Bishop. Centrato però per un pubblico che non può ancora percepire l’inevitabile finitezza delle cose. Appare inoltre come una cronaca ben calibrata, in presa diretta, dell’altalena emozionale che chiunque può provare in situazioni del genere.

La Nilsson, dalla sua, riesce inoltre a offrire personaggi che sanno di autentico, grazie al nitore dei dialoghi e a una sobrietà del racconto, due costanti che non vengono mai meno nello scorrere delle pagine. Nemmeno nei momenti in cui sarebbe più facile cadere nella retorica dei sentimenti, lasciando briglie sciolte alle soluzioni narrative più facili e retrive. Sinteticamente, potremmo dire che l’autrice in parallelo lascia molto raccontare al suo personaggio eppure ugualmente mostra. 

Soprattutto, nelle pagine di questo suo romanzo riesce a costruire una storia che fa emozionare senza scegliere vie preconfezionate, rivolgendosi oltretutto ai lettori più difficili al mondo.

Sergio Rotino

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A quanto pare c’è una legge che dice che bisogna portare dei fiori alle persone ricoverate in ospedale. I fiori costano soldi. E soldi io non ne ho mai. La paghetta finisce sempre appena me la danno. Per fortuna conosco il fioraio dell’ospedale. Dice che la nonna è la sua miglior cliente, quindi mi dà gratis una rosa mezza appassita. Una rosa rossa.

Prendo l’ascensore fino al terzo piano, reparto 31. La mettono sempre lì.

«Ciao» dice Siv, che ci lavora. «Che ti è successo?»

«Eh?»

«Hai la faccia piena di sangue».

«Davvero?»

«Sembri appena uscita da una rissa».

«È stato Konrad» dico. «È in classe con me».

«Che ragazzo stupido!» dice Siv aggrottando la fronte.

«No, lui è buono. Sono stata io a cominciare».

«E perché?» domanda Siv mentre mi pulisce la faccia.

«Credo mi sia venuto il cancro delle botte».

«Cancro delle botte? Sembra grave».

«Mi sa che lo è» replico, facendo una smorfia quando mi toglie dei sassolini dal palmo della mano e pulisce la ferita con l’alcol che brucia. «Tutti provano sempre compassione per me. Lo detesto! Che provassero compassione per loro stessi. Anche loro moriranno».

«È per questo che fai a botte?»

Faccio spallucce. In realtà non so perché faccio a botte. So solo che non riesco a trattenermi e che è una bella sensazione.

«Una cosa è certa. È più facile incerottare queste ferite qui» dice Siv mettendomi un cerotto sul palmo della mano «rispetto a ciò che ti fa male dentro».

«Intendi cose tipo il cancro della mamma?»

«No, intendo la rabbia che ti fa male dentro e ti costringe a fare a botte» dice Siv, posando la mano sul mio cuore rotto.

Quando entro nella sua stanza, la mamma sta dormendo. Per fortuna nel letto accanto non c’è nessuno. Poso il vaso che mi ha dato Siv, con dentro la mia rosa rossa, accanto a un altro vaso con dei fiori molto più belli.

Di sicuro li ha portati la nonna.

Mi siedo sulla poltrona per i visitatori e aspetto che la mamma si svegli. Ha dei tubicini nel naso. Sono meglio di quelli che ha a casa. È per questo che ogni tanto va in ospedale. Per respirare meglio. E dormire.

Non sembra per niente malata. A parte i tubicini nel naso, intendo. Le sono perfino ricresciuti un po’ di capelli.

La mamma espira e inspira. Espira e inspira. Se si smette di respirare si muore.

«Lea» dice la mamma con un sorriso. «Da quanto tempo sei seduta lì?»

«Da un bel po’» rispondo, arrampicandomi sul suo letto. «Non volevo svegliarti».

Le lenzuola degli ospedali hanno un odore particolare. Perfino la mamma ha un odore diverso, qui dentro.

«Sei venuta da sola?» domanda la mamma.

«Sì» rispondo, come se fosse la cosa più normale del mondo.

«Come va a scuola?»

«Bene».

«Sicura?»

Annuisco.

Poi non diciamo più niente per un po’. Premo il telecomando del letto e ci faccio salire e scendere qualche volta.

«E con Noa come va? Avete fatto pace?»

Scuoto la testa, colpendo la mamma con la coda. Lei mi toglie l’elastico e mi districa i capelli. È l’unica che lo fa nel modo giusto, senza farmi male. Anzi, è piacevole. Chiudo gli occhi.

Noa e io abbiamo i capelli più lunghi di tutta la classe. In realtà di tutta la scuola. Abbiamo deciso di non tagliarli mai. I suoi sono chiari e facili da spazzolare, i miei sono scuri e difficili da spazzolare. Abbiamo sempre la stessa pettinatura. Lei la fa a me e io la faccio a lei. O meglio, la facevamo, prima di litigare. Coda, trecce, alla francese, sciolti… Ma da quando abbiamo litigato li ho tenuti solo con una coda. E da quando la mamma è andata in ospedale non li ho neanche spazzolati. Sono pieni di nodi.

La mamma è costretta a districarli per un bel po’. Mi piace quando si prende cura dei miei capelli.

Se chiudo gli occhi riesco a dimenticare che siamo su un letto d’ospedale. Se chiudo gli occhi posso fare finta che sia tutto normale e che la mia mamma è sana quanto le altre mamme.

«E oggi che fai?» domanda la mamma mentre mi fa la treccia.

«Niente. Tu?»

«Io farò una radiografia e un po’ di analisi».

«Quando torni a casa?»

«Tra qualche giorno».

«Mi manchi» dico.

«E tu manchi a me» dice la mamma.

Poi rimaniamo sdraiate in silenzio. All’ospedale è molto più difficile parlare. È come se tutte le parole venissero inghiottite dalle pareti spoglie.

Rimaniamo in silenzio finché il papà non telefona, preoccupato per me.

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