Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Monica Ojeda anteprima. Nefando

Home / Anteprime / Monica Ojeda anteprima. Nefando

A un certo punto chi scrive e recensisce contenuti letterari deve cimentarsi in un azzardo, in una profezia di cui si prenderà gli oneri e gli onori nel futuro grigio della nostra contemporaneità. La mia scommessa letteraria è che Monica Ojeda diventerà tra le più importanti scrittrici del nostro tempo, e non solo nella letteratura di nicchia e del suo (non)genere, ma travalicherà i confini nazionali e metatestuali. Sarà la Shirley Jackson dei millenials.

Non cito i millenials casualmente, i figli della cultura pop, degli audiocassette, della rivoluzione digitale e dell’intrattenimento tecnologico. Nefando, il romanzo della Ojeda appena pubblicato da Alessandro Polidoro Editore dopo Mandibula, è un manifesto generazionale dall’impianto originalissimo e mistery, che si insinua nel mondo virtuale per scatenare una tempesta conturbante frammentata dai pixels.

Nefando è una storia oscura e letteralmente anti-anatomica, è un abuso della chirurgia “narrativa” che va a vivisezionare i sei personaggi barcellonesi nelle loro stanze mentre coltivano segreti, psicosi, idiosincrasie e contraddizioni. E se Maurice Blanchot nella scrittura del disastro dice che la Lingua è un Patogeno e il Disastro allora la letteratura di Monica Ojeda è apocalisse individuale che distrugge e affetta i suoi personaggi in una spirale di nostalgia, violenza, ricordi e vite spezzati. Ojeda gioca col caos, come già ci aveva abituato in Mandibula, e sfugge a qualsivoglia griglia morale come gli stessi creatori materiali e teorici del videogioco Nefando. Ojeda in Nefando sprigiona una voce di alto profilo letterario in cui convergono diramate influenze letterarie e sociali, da quelle più sofisticate a quelle più marce del visionario interregno dell’Underground. Dolore, masochismo, sessualità eretica e incontrollata. Potremmo perderci in un abisso senza via di uscita solo a esplorare ulteriormente Nefando, come uno di quei videogiochi dove si richiede la “morte” per imparare a risolvere l’indovinello impossibile o sconfiggere il final boss indistruttibile.

E forse Monica Ojeda ci tramanda una grande lezione, la paura è l’unico modo per conoscere davvero noi stessi.

Cristiano Saccoccia

#

Hai provato a concentrarti sulle teste dei tuoi compagni: piumini, palme, spugne, code di cavallo. Unghie dipinte di blu, scheggiate come gusci, grattavano una nuca lasciando righe rosacee sulla pelle. Un paio di spalle si alzano e si abbassano. Una testa si butta all’indietro. Una schiena si piega in avanti come un artiglio. L’unico volto della classe era quello del professore che adesso parlava di Tristram Shandy, un volto ovoidale, evasivo, che mostrava sempre il profilo in ombra come un attore che recita un monologo su un palco- 30 scenico male illuminato. Nessuno in quella classe sapeva quanto odiassi il tuo pene eretto, quanto avresti voluto strappartelo e buttarlo nel cesso. Era un’enorme sanguisuga che dalla pelvi ti succhiava via la vita. Solo il tuo corpo, quella larva, era in grado di provocarti la smania di violenza che ti spinge ad afferrare la matita e portarla sotto il banco. Il professore testa di peperoncino pendulo, succhiatore di cazzi arabi ed ebrei, continuava a parlare del romanzo di Sterne, però lui, con un dottorato di ricerca su Sebald e la distruzione, un master in letteratura comparata e un altro in studi teorici, una calvizie impossibile da nascondere che faceva da specchio alla luce biancastra appesa al soffitto, diversi articoli pubblicati su riviste specializzate, i pantaloni stirati con l’impeccabile riga in mezzo, che parlava con una penna Montblanc tra le dita e che talvolta portava alla bocca di gran figlio di cagna sodomitica, autore di un articolo sulle scrittrici latinoamericane del xx secolo, con la camicia infilata nei pantaloni da stronzo fascista, sgualcita da una cintura marrone con la fibbia d’oro, che adesso parlava un’altra volta di Montaigne, con qualche pelo ispido sul dorso della mano, un anello all’anulare sinistro, che scriveva recensioni per svariati supplementi culturali, che aveva una Mercedes Benz cavansite metallizzato, i denti grandi e perfettamente allineati, mocassini color merda, la camicia bianca con la cravatta grigia, una ricerca sulle scrittrici americane in epoca coloniale, una valigetta di cuoio nero Strellson Balham, un Rolex che gli lasciava i segni sul polso, un facsimile della Divina Commedia sulla scrivania, non poteva sapere nulla di letteratura.

Un uomo così, retto, ineccepibile, a suo agio con se stesso, a suo agio con la vita, la carriera, lo stipendio, il prestigio da culo stretto, non poteva capire che la letteratura era un vomito rigurgitato da persone come te, duplici e con mille maschere. Lentamente hai spinto la punta della matita dentro la tela dei pantaloni fino ad arrivare alla carne del tuo membro. Nessuna schiena che avevi davanti poteva creare qualcosa di valido perché tutti loro vivevano in una fantasia accomodante in cui si sentivano dei sopravvissuti. Solo tu – che ti infilavi la punta della matita nel pene eretto e mascheravi il dolore con un’espressione di gesso senza sapere perché, visto che nessuno ti guardava, nemmeno il professore con gli occhiali dalla montatura Ralph Lauren, e sentivi il calore della vittoria avvolgerti il cuore piumato mentre il serpente rattrappiva, docile, pentito – potevi saperne qualcosa di sopravvivenza e scrivere cose dotate di senso in un mondo di cinica mansuetudine. Tu e persone come Kiki o i fratelli Terán, o perfino il Cuco, persone che vivevano nel disagio, nella fatica, ma non chi ti dava le spalle, non quel finocchio che beveva acqua di Vichy appoggiandola accanto alla valigetta Strellson Balham, solo tu, l’abominevole te, nonostante i soldi per mantenerti in Europa che i tuoi genitori ti mandavano dal Messico lindo, Messico amor, nonostante fossi di Polanco e tua madre dicesse cool e nice più volte nella stessa frase di quante ne potessi contare. Se avessi voluto, saresti potuto essere tu il tizio con gli occhiali dalla montatura Ralph Lauren e il Rolex, ma ti è toccato essere Quetzalcoatl e uno specchio nero fumante, la tua nemesi, incarnito come una spina sotto l’ala. Il pene si era già ritirato tra le sue pieghe, ma continuavi a infilzarlo nel caso gli fosse venuto in mente di rialzarsi. Eri sporco dentro.

#

Monica Ojeda

Nefando
Traduzione di Massimilano Bonatto

Alessandro Polidoro Editore

17 euro

233 pagine

Click to listen highlighted text!