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Mónica Ojeda. Mandibula

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Mandibola è la madre. Mandibola è la figlia. Mandibola è la migliore amica. Mandibola è la pulsione che fa chiudere le gambe al primo brivido. Mandibola sono i banchi di scuola troppo vicini, gli occhi che si scrutano dietro frangette troppo lunghe, i giochi che si fanno senza adulti, le storie raccontate sotto le coperte, le carcasse degli animali morti ai bordi degli edifici abbandonati.

Mandibola è una morsa che si chiude attorno all’età più indomabile, quell’adolescenza che sfugge viscida e nervosa come un’anguilla in mezzo al fango.  Mandibola è una storia di donne.  Donne e generazioni. Mandibola è un parto.

In primis, di Fernanda e Annelise, studentesse presso una scuola privata cristiana. Ragazzine annoiate, cresciute nell’agio e nei vizi, incapaci di trovare una soluzione al susseguirsi di giornate tutte uguali, donne acerbe eppure lucidissime, prosciugate da una soffocante maternità. 

La madre dunque, come forma di perenne conflitto. La madre castrante, esigente, deus ex machina onnipresente anche quando assente. 

La madre, appunto, mandibola primordiale. 

Fernanda e Annelise sono i denti aguzzi della mandibola. La prima colpevole di un fratricidio di cui non serba alcun ricordo, le cui sedute di terapia faranno emergere aspetti ancora più devianti e sfaccettati della sua personalità (un artificio curioso dell’autrice è la scelta di censurare le risposte dell’analista di Fernanda che durante le sedute si esprimerà sempre attraverso l’uso dei puntini di sospensione, tranne un’ultima, decisiva, osservazione finale che cita in campo Lacan), la seconda che si atteggia a sacerdotessa/portavoce di una divinità da lei stessa adorata che è pura manifestazione d’orrore: Il Dio Bianco, una sorta di culto collettivo alimentato dal web e dalle creepypasta (brevi novelle horror diffuse in rete attraverso siti e forum che hanno creato veri e propri fenomeni di culto come Slender Man).

Ragazze carnefici, ragazze fucine di storie malate e comportamenti al limite del morboso ma anche e soprattutto ragazze vittime di una figura più grande e minacciosa di qualsiasi masochistica divinità: Clara, l’insegnante-mandibola che è entrata nelle loro vite non per vocazione, ma per imitazione. Clara infatti rappresenta l’anello di congiunzione tra le varie generazioni presenti nel romanzo, in quanto lei stessa vittima-matrioska di un profondo senso di incarnazione nella figura di sua madre, Elena, donna di principi e regole ferree che ha respinto l’amore di sua figlia, finendo, però, per restarne a sua volta fagocitata. E infatti sarà proprio questa mancanza a generare in Clara il bisogno di immedesimarsi ancor di più nella donna che l’ha generata, imitandone gli atteggiamenti, assimilandone i timori e arrivando addirittura a vestirne gli stessi indumenti.

Ma questo è solo la premessa. Difficile procedere nella descrizione di una trama che alterna stati mentali alterati a punti di vista di personalità borderline che si muovono sempre al limite tra il weird e l’horror più genuino. 

Ma l’orrore in queste pagine non è mai esplicito, non c’è una goccia di sangue a tingere la bellezza di una prosa lucidissima e ammaliante come un miraggio. Il mostro non è dentro l’armadio o nelle pareti gorgoglianti dell’edificio in cui si rifugiano le ragazze a narrare storie creepy, il mostro sono loro stesse, forse, i loro corpi, gli ormoni, gli odori, gli umori che li attraversano mentre il battito accelera, le pelli si sfregano e la gola non è mai sazia di proibito. L’orrore sono le regole, le privazioni, i limiti di una società credente e castrante che genera tumori di repressione. L’orrore sono uomini assenti, sguscianti guardoni che si muovono tra le pagine come osservatori silenziosi. L’orrore è un’adolescenza incapace di accettarsi. 

La mandibola scatta tra le pagine e scandisce il ritmo di un romanzo psichedelico che muta di forma e definizione come il riverbero su una lastra di asfalto incandescente, è una storia matura che parla di persone che la maturità ancora non l’hanno assimilata, accettata, che abitano corpi brucianti di una pulsione viscerale, impossibile da costringere in un solo genere. 

La mandibola è una bocca vorace che inghiotte la propria casa, le regole di una società bigotta, la religione, la propria madre, il proprio padre, il proprio figlio, le proprie carni, i desideri, la fame stessa lasciandosi alle spalle solo un vago senso di stordimento e quella luce bianca, accecante, vorace di colori.

Stefano Bonazzi 

Mandibula di Mónica Ojeda

Traduzione: Massimiliano Bonatto

Alessandro Polidoro Editore

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