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Monica Perosino. La Neve di Mariupol’

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Esiste un prima e un dopo la guerra. Un’irrimediabile linea di demarcazione tra la vita precedente e quella successiva al 24 febbraio 2022, giorno in cui per l’Ucraina tutto è cambiato. Giorno in cui il destino di un intero popolo è stato riscritto. Scoppia la guerra. Una guerra che terrorizza l’Europa e l’intero mondo, una guerra che lascia tutti con il fiato sospeso.

Tutti tranne una donna che il fiato non l’ha perso mai. Le è servito per correre, parlare, fuggire, confortare. Una donna che ha avuto il coraggio di rimanere in un paese lacerato dalle bombe, dilaniato dalle mine anti uomo, violentato dal dolore. Un paese a cui hanno provato a togliere la dignità ma il cui popolo ha cercato di tenere la schiena dritta e il cuore gonfio. Ad ogni costo.

Monica Perosino, inviata de La Stampa, ci regala una grande narrazione, La Neve di Mariupol’ (uscito il 24 febbraio 2023 per Paesi Edizioni – pp. 192, €16). Un romanzo verità che ci accompagna in un viaggio terrificante tra gli orrori della guerra. Un romanzo che ci fa piombare nella paura e nella disperazione di un popolo a cui è stato tolto tutto. La Perosino però non si limita alla cronaca, né alla narrazione semplice dei fatti. L’autrice ha la sensibilità di sentire ciò che la gente sente e ce lo riferisce, dando così un volto umano al conflitto. Non si occuperà delle ragioni della guerra, non parlerà di strategie né si lascerà andare in disquisizioni politiche. Prende le distanze da tutto questo non nominando mai il nome del presidente della Federazione Russa, responsabile di tale scelleratezza. Lo apostroferà come l’uomo con la cravatta viola, chiarificando subito la sua posizione: a lei interessa la gente vittima di questa guerra. Nient’altro. Attraverso immagini nitide ed essenziali ci fa camminare insieme a lei tra le strade ucraine. Utilizza tutti i sensi per dipingere quadri terribili che nessuna immaginazione potrà completamente rappresentare. Riesce a trasportarci dentro i bunker e a farci sentire il suono assordante delle bombe, l’odore stantio di sudore, sporco e rassegnazione di persone la cui sopravvivenza è ridotta all’osso. Ci trascina nelle strade distrutte da ordigni che non avrebbero mai dovuto colpire civili; ci fa camminare tra le macerie di abitazioni rase al suolo, ci mostra il risultato della furia umana sottolineata da un silenzio surreale. Un dolore sordo. Un terrore senza urla. Ci dona ritratti di volti deturpati dall’orrore, volti di un popolo pieno di orgoglio che non accetta di piegarsi ma che si adopera per fronteggiare un nemico che oltre la vita tenta di togliere loro la dignità.

Questo romanzo parla della vita che resiste alla morte. Parla di braccia strappate da adii, di famiglie divise nel tentativo di salvarsi, di lacrime di bambini che nessuno potrà mai asciugare perché impresse nei ricordi. Questo romanzo parla della follia di coloro che sono stati messi in ginocchio dalla perdita, dalla paura. Coloro la cui vista è stata violentata da corpi smembrati, da abusi perpetrati su corpi morti dentro, corpi con anime maciullate che non riusciranno più a guardare alla loro esistenza con normalità. Lo fa con una scrittura semplice e colloquiale, trovando in alcuni momenti anche il modo di alleggerire e far distogliere lo sguardo al lettore, per dargli la possibilità di respirare lì dove il fiato si ferma in gola alla vista di immagini che è difficile contemplare. Il libro parla di una resistenza inusuale, una resistenza fatta anche da donne coraggiose che non hanno paura di divenire parte di un orgoglio popolare condiviso indipendentemente dal sesso e dall’età: come la bellissima ragazza che compra un’ascia in armeria (i fucili erano esauriti), di una bambina che costruisce molotov invece che giocare, di mamme che scappano via per preservare la vita dei propri figli affrontando viaggi tra mine e cecchini. È un romanzo intriso di una grande umanità, nonostante tutto ciò che circonda l’autrice ne sia apparentemente privo: l’umanità è nella solidarietà tra persone, nello scambio di cibo, riparo, taniche di benzina, giubbotti antiproiettili. Un’umanità fatta di ascolto di storie disperate che nella condivisione allentano la loro carica distruttiva. L’autrice parla di confini invisibili che dividono i destini, come quelli di due fratelli che vivevano al confine con la Russia e “uno tagliava grossi ceppi in Russia, l’altro li accatastava in Ucraina. Il confine era lì da qualche parte sotto la distesa di neve.” E quel confine rende qualcuno vittima e qualcun altro carnefice.

Attraverso i suoi occhi guardiamo una quotidianità sgretolata, vite interrotte all’improvviso. Vite che un tempo abitavano palazzi sventrati i cui ultimi istanti rimarranno bloccati in un tempo ormai eterno “un canovaccio a quadri ancora appeso alla maniglia di un formo e da quel peluche che, un tempo, doveva essere un coniglio bianco. Ora oscilla nel vuoto del secondo piano, trattenuto da un tondino di ferro per l’orecchio”.

L’autrice sembra correre contro il tempo nel tentativo di catturare più immagini possibili, di viverle e farle vivere attraverso la sua scrittura, attraversata dal senso di colpa di dover tornare a casa e lasciare lì un pezzo di mondo che non è riuscito a scappare o non ha potuto perché legato visceralmente alla sua terra, come tutti quelli che invece sono andati via per non vederla in ginocchio.

Tra le righe di questo romanzo vi sono tutte le voci inascoltate, tutti i silenzi che hanno preso il posto delle parole, tutte le persone che non ci sono più.

Un romanzo che racconta di un’umanità fatta di vicinanza ed empatia tra persone che hanno perso tutto ma non la dignità.

Nancy Citro

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