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Nicola Ruganti anteprima. Meglio che qua

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Uscito sabato 4 marzo, per i tipi della casa editrice partenopea Il barrito del Mammut, Meglio che qua (pagg. 147, € 12,00) raccoglie dodici racconti scritti da Nicola Ruganti.

Insegnante e scrittore molto attivo su vari fronti sociali (e politici), Ruganti prova a restituire con un occhio acuto e una forte sensibilità partecipativa, lo spaccato di una umanità che vive dentro uno stato di crisi. Sia essa sociale politica o sanitaria, l’impatto sugli attori presenti nelle storie è comunque massimo.

Come scrive Luigi Cancrini nell’introduzione, l’autore mette in scena personaggi che si presentano tendenzialmente come “socialmente afasici”.

Eppure, aggiungiamo, oltre l’afasia, oltre la confusione interiore che li invade, spesso in loro resta accesa una luce che ne illumina gli angoli più bui. Nella loro rabbia, nella loro disperazione, nella loro disillusione troviamo una dolcezza che non stride con i loro pensieri o con le loro azioni, ma amplifica la loro ragione a esistere.

Molti dei personaggi si possono vedere come contigui al territorio degli “ultimi”, dei diseredati, degli invisibili. Vivono cioè in quella terra di mezzo, intramatura di condizioni economiche, condizioni familiari, condizioni sentimentali, che mette la loro anima lì lì per andare in frantumi.

Sono parte di una umanità senza confini razziali che, torniamo a dire, si muove fra automatismi e frustrazioni, rancori e repentine accensioni. Apparentemente incoscienti di cosa li porti a essere quello che sono, vestono i panni dell’eroe tragico contemporaneo: parlano la nostra lingua disarticolata, e nel loro piccolo brillano di una luce intensa.

Muovendosi fra narrazioni brevi e brevissime, sostenute dalle illustrazioni di Luca Dalisi, Meglio che qua (megliochequa.it) racconta l’Italia del nostro quotidiano, le contraddizioni del vivere che la abitano e ci abitano interamente.

Sergio Rotino

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Bar Allori

Perché hanno costruito il banco della cassa e il banco dei caffè in un modo così scomodo? Ogni mattina alle quattro arrivo in piazza degli Allori e alzo il bandone. Rimango lì a guardare, per un attimo, non di più; non provo sentimenti particolari o da ricordare, mi rimane l’immagine del bar, il bar all’alba. Mi metto dietro al banco del bar e per tutto il giorno racconto aneddoti. Il mio corpo invecchia, l’anima si imbastardisce. La schiena lotta per esserci, anche stamattina, davanti alla mia Cimbali: una macchina per caffè piazzata lì dagli anni Settanta. Sento un tuffo al cuore, lo so che è paura, ma la scaccio via. Mi sembra di avere la labirintite, è un momento preciso che si piazza esattamente tra il primo straccio passato sul banco di acciaio e l’ingresso del primo cliente. Dopo non sento più nulla, gli acciacchi sì.

Ho iniziato aiutando mia madre, storica barista del quartiere, lei dietro alla cassa e io al banco del caffè. Intorno suppellettili e patatine, già allora. Io e la mia Cimbali, fin da ragazzo, ed ero felice. Passava pure papà qualche volta, tra una consegna e l’altra quando faceva il portalettere qua, in zona.

Non mi ero mai accorto di quanto fosse immobile il Bar Allori, me ne sono accorto all’improvviso e, se mi fermo un attimo a pensare, non ho fatto niente per cambiare. Quando si entra nel bar si vedono due banconi in muratura, belli e con le mattonelle azzurre, non c’è tanta luce, ma di giorno, con il sole che si prende tutta l’aria di Roma, la penombra è un piacere: raggi e riflessi fanno l’aria azzurrina e fresca. Guardo i banconi, anche oggi, con le spalle alla piazza, e mi domando: ma perché hanno tutti e due l’apertura a sinistra? Perché per andare dai caffè alla cassa devo passare in mezzo al bar? Prima eravamo in due nel bar, adesso sono da solo e più corpulento, mi sento più grosso di quello che sono, e anche più vecchio.

Mi è successo tutto insieme, ma non so cosa… durante il giorno non ci penso. Mi ricordo di aver visto con mio figlio, quando era piccolo, un cartone animato in cui degli ippopotami danzavano musica classica, durante il giorno mi figuro in quel modo lì. La sera, la sera no, la sera penso a quando eravamo in due e mio papà passava a dare un bacio alla mamma e a farsi fare un caffè da me; tra una lettera e l’altra.

Il momento che preferisco è quando accendo lo stereo, prima silenzio, poi faccio partire una musica cubana, veloce e allegra. Mi fa effetto e ridacchio da solo. Mi sento sicuro e tranquillo, ho i miei riti, mi viene da ridere oggi; domani, magari, da piangere. Metto questa orchestrina e mi sembra di essere meno solo. Penso al perché mi fa questo effetto: forse perché non sono né cubano, né veloce, né allegro, o forse proprio perché lo sono e più di tutto lo è il mio cuore.

Arrivo sempre molto prima del lattaio e del primo cliente; è ancora buio, apro la cancellata che ho fatto mettere davanti alla porta del bar. Era un’altra Roma, adesso non si può fare senza grate, non è più come prima: un cliente sì e un cliente pure mi dicono così. La piazza tutto intorno si è riempita di cancellate ai terrazzi e alle finestre: anni fa erano solo ai pianterreni poi, col passare del tempo e il crescere della paura, le sbarre hanno conquistato anche i piani più alti. Me lo dicono, lo vedo, e alla fine anch’io la penso così.

Ecco il lattaio. Stamattina mi lascia un carico di quattro casse da dodici bottiglie. Questa fu una scelta di mia madre, vengono le signore del quartiere Monsone, ormai un po’ anziane, e dalle 6 alle 8 sono il lattaio del quartiere; nel frattempo faccio caffè. Al bar mi portano un po’ di tutto, comunque di piccolo taglio, e io piazzo le cose in un paio di giorni.

Quello che faccio per sopravvivere è una scelta mia, a dire la verità non so neppure se siano scelte. Niente droga per carità, gli sbirri la chiamano ricettazione, i radical chic economia di vicinato; io, beh, io lo chiamo tirare a campare. Capita che insieme all’euro del caffè prendo qualche piotta, me le danno sempre in ritardo, ma io ci rido, credo che mi vada bene che tutto rimanga così: ormai sono un po’ pelato e con i capelli bianchi, tengo la barba, bianca, appena appena accennata. Insomma mi va bene così. Mi faccio forza per quello che posso. Ieri mi è entrato uno del quartiere qua nel bar e mi ha strillato:

Se non me fai arrivare di più glieli dico tutti, i tuoi impicci, a tua moglie…

Io ho fatto pippa, l’ho lasciato fare. Mi chiedo che ne sa lui dei miei impicci, chissà che idea s’è fatto… Ci arrangiamo, mia moglie ha studiato ragioneria e mi aiuta a tenere i conti.

Non ci accorgiamo proprio di che idea si fanno le persone su di noi; un giorno ti svegli e, mentre gestisci un po’ di compravendita, arriva qualcuno del quartiere a dirti che fai gli impicci se non peggio.

Ho scoperto tardi che l’edicolante della zona, quando gli parlano di me, fa una pausa alla Gigi Proietti e dice:

Ma chi? Quel peracottaro?!

E lo conosco da una vita. Mi immagino gli altri, ma sinceramente, col cuore, chivvesencula.

Stamattina dopo il primo giro di caffè e di latte, ho visto che era un momento di stanca, ho chiuso un attimo il bar, ho messo il cartello “torno subito” e ho fatto un giro al mercato coperto che c’è in piazza. Non si tratta di farsi coraggio, è che mi sento stanco, questa giratina me la vivo come una vittoria. In altri tempi ho cercato di accendermi di passioni… e in un certo momento della vita l’ho pure fatto. Ci avevo gli occhi rossi e al posto delle pupille la falce e martello: facevo il cameriere e una volta venne l’onorevole Tasso, di estrema destra, e io lo dissi al mio principale e all’onorevole:

Mi dispiace. Tocca non servirla.

Ero così, ma le cose in questo paese sono cambiate e mi sono sentito solo: il bar da tenere in piedi, i miei che se ne sono andati, una moglie rompicoglioni e io eterno perdente… Non so, ma quel fuoco comunista collettivo e di sangue ribollente e giovane è sfumato.

Entro al mercato, vado dal macellaio, mi voglio fare una fetta di carne per cena (mia moglie sarà a yoga, mio figlio non lo vedo da tre giorni, niente di che, solo che non ha voglia di fare un cazzo) e chiedo una bistecca tagliata fine. Sembra l’operazione del secolo questo taglio, rimango un po’ imbambolato perché da un po’ di tempo mi soffermo più del dovuto, o più dell’educato, a osservare le persone. Un po’ come mio figlio quando era piccolo e vedeva cose strane e candidamente con gli occhi curiosi diceva davanti a un nano: “Com’è vecchio papà questo bambino”.

I capelli grigi e lucenti, pettinatissimi, e, sotto, un volto segnato da increspature, pieghe, antichi tagli sulla pelle; niente di profondo, segni su un corpo, su un volto che ha sofferto. Il taglio della bistecchina sta finendo e devo smettere di fissare la testa del macellaio.

Alza gli occhi, acquosi, completamente disinteressato dal fatto che gli ho piantato gli occhi addosso, e dice:

Questo è venuto bene per merito delle vibrazioni?

Rimango fermo come una lucertola al sole. Insiste, rivolto verso di me:

Voi le conoscete?… ’ste vibrazioni?

Capisco in ritardo che si è preso, in mattinata o chissà quando, una questione con il suo collega e ora vuole proseguire con la scusa della mia bistecchina. Non è polemico, le cose sconosciute lo fanno riflettere, come le occasioni perse. Il collega macellaio, più giovane, grande e grosso:

Le parole sono superflue, non esiste il pollice verde, ma le vibrazioni che le piante sentono: ci hanno dei batteri che capiscono… Così come il cane quando lo guardi e si accuccia… E così fra gli umani ci capiamo con le vibrazioni…

Vuole altro? – ha tagliato corto quello che mi stava servendo.

Nel frattempo ho osservato il giovane che taglia e batte la carne in modo ripetitivo e proprio prima che parlasse mi stavo domandando come faccia a occupare il suo tempo mentale con un lavoro così meccanico.

All’improvviso il mio macellaio mi sobbalza davanti agli occhi e dice:

Ciao! – guardando alle mie spalle. E rivolto a me: – Ho bisogno di una vacanza… Quello lì col trasportino è quello che viene a prendere il grasso e gli ossi; fino a un momento fa pensavo fosse mercoledì e invece se viene lui vuol dire che è giovedì!

Mi allontano pensando a quel macellaio; era tanto che non mi prendevo qualche minuto in mezzo alla giornata… Ci penso e ci ripenso e all’improvviso mi sovviene che il macellaio sono io. Ma non è il bisogno di vacanza, è che siamo soli, è che non ne possiamo più. Ci viene voglia di parlare, lo facciamo, ma abbiamo paura, una paura enorme di sbagliare, e di aver sbagliato. Ci voltiamo indietro e tutta una serie di illusioni, non politiche, di soddisfazione personale sono tradite. Chissà cosa avevo sperato; sperando è andato tutto mestamente e allora meglio lasciare un po’ di spazio alla paura. Esco dal mercato coperto e sulla sedia vicino all’uscita a dei tavolini di plastica ci sta un uomo con una maglia nera con sopra i fasci littori e con scritto “Boia chi molla”. Ho smesso da tempo di avere gli occhi rossi e le pupille con la falce e martello, adesso voto la Destra. I Cinque stelle non li sopporto, sono uguali alla Democrazia cristiana, quella di destra e paracula, ho bisogno di qualcosa di più acceso e mi va bene che sia il Tricolore, ma vedo che nel desiderio di ordine che chiedo alla politica, la politica per prima mi maltratta. Ho perso anche stando a destra, ho cercato qualcosa di definito, ma se penso a tutti quelli che passano dal bar vince il pensiero opportunista e il retropensiero fascista. Se dev’essere la Lega, che Lega sia, con gli smaniosi volubili Cinque stelle. Sono del partito della pagnotta e alla fine basta che non mi vengano a cercare per quei due impicci che mi sono messo a fare. Sento qualcosa che mi si è rotto dentro, ma non lo voglio ascoltare. Adesso Salvini, della Lega e ministro dell’Interno, ha proposto di censire la popolazione Rom, non aveva finito di fare questa dichiarazione che ha detto che bisogna armare i cittadini nelle case, così possono sparare, per legittima difesa, ai ladri. Ecco, ho bisogno di questo e anche di qualcuno che mi dice che tutti gli altri, proprio tutti gli altri, stanno meglio di me; tutti tranne me. Ho bisogno di qualcuno che promette il castigo e lo mette in atto con punizioni esemplari.

La pacchia se la vivono sempre gli altri, io devo fare il giro di due banconi costruiti male, e ogni volta penso che quando c’era mamma era meglio. Eravamo in due, anche in tre, si stava meglio e non pensavo alla pacchia degli altri, passava papà con le lettere e io gli facevo il caffè.

Le navi sono piene di negri che giocano alle slot e chissà con quali soldi. So di un italiano che è stato licenziato che ancora navigavano, mentre i negri si godevano la crociera.

Un cliente me l’ha spiegato bene, oggi, mentre gli facevo un caffè. Ma io perché non dovrei crederci? Perché dovrei difendere questi sconosciuti? Sono stanco. Sinceramente anche i negri stanno meglio di me, li vedo in questa piazza qua davanti, si ritrovano, sembra che non siano neppure stanchi, e ridono pure. Che cazzo se ridono?

È un periodo che li vedo in mare che affogano perché il ministro dell’Interno ha chiuso i porti. Ha chiuso i porti e quelli annegano. Non vengono a ridere davanti ai miei tavolini, smettono prima.

Adesso chiudo il bar, lo chiudo sempre un po’ prima nel pomeriggio. Chiudo la cancellata, non ho più nessuno intorno, inizio a pulire e mi lascio per ultimo il bancone. Passo l’ultimo colpo di straccio, ed ecco il silenzio, la labirintite, di nuovo, come al mattino, come ogni giorno prima di ridere, mentre faccio viaggiare a mille la mia Cimbali, come ogni giorno quando smetto di ridere e spengo la Cimbali. Alla fermata del 544 trovo i bambini che sciamano fuori dalla scuola e qualche anziana che torna con la spesa, è il momento che preferisco: né perché torno a casa, né perché ho finito di lavorare. Mi piace quel viaggio in mezzo a Roma che tramonta, e mi piace l’autobus che rimbalza nelle buche dove qualche romano ha iniziato a mettere i fiori. E alla sindaca non glielo dico che Roma mi piace così: nella sua autentica, solidale e democratica rovina. Mi piace andare via che c’è ancora il sole, mi sembra di non essere neppure stanco. Al ministro dell’Interno non glielo dico che quando il sole attraversa Roma come il vento tutto diventa arancione e celeste; non glielo dico che i colori delle persone sono dolci; non glielo dico che il caffè lo faccio a tutti e a qualcuno, qualche volta, pure gratis.

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