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Non potrei mai rinunciare ad Anais Nin o Giorgio Bassani. Intervista a Giovanni Montini

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Sei uno scrittore che predilige la forma romanzo (più o meno) breve: come lavori alla struttura delle tue storie?

Innanzitutto, la trama. Se non arriva l’idea, l’intuizione, non riesco a buttare giù nemmeno un rigo. Anche perché una storia mi deve conquistare. Un po’ come l’amore.

Quando poi la struttura comincia a delinearsi, a prendere forma, la divido in blocchi, come tanti capitoli. E solo da quel momento che riesco a “vedere” il romanzo nella sua interezza.

Resta inteso che a volte la storia, come per magia, sceglie un’altra strada, facendomi deviare da quello che avevo programmato all’inizio. I personaggi prendono il sopravvento e stravolgono la trama. A me non rimane che assecondarli, lasciandoli liberi. Più che la ragione, ascolto il cuore. La tecnica, in questi casi, serve poco.

Ammesso che esista – concretamente – una definizione utile di “indagine sul reale”, che valore dai ai fatti che accadono nella tua vita, rispetto a quelli che scegli di utilizzare per i tuoi libri?

A volte tanto, a volte per niente. Dipende da quanto possano incidere gli avvenimenti della mia vita rispetto a quello che sto scrivendo. Certo, per un autore è faticoso scindere le proprie emozioni, prenderne le distanze. I personaggi ti appartengono, vivono con te, si nutrono di te. Però la bellezza della scrittura sta proprio qui: permette di attraversare questo passaggio, dividere i turbamenti, scandagliarli, sezionarli. Approfondire alcuni aspetti di te che, magari, non avresti affrontato in altre circostanze.

Quali sono gli autori classici da cui non vorresti mai separarti? Quali gli autori contemporanei viventi?

Non potrei mai rinunciare agli scritti di Anais Nin o a quelli di Giorgio Bassani. Ma c’è anche Scerbanenco, da cui mi riuscirebbe difficile separarmi.

Tra i contemporanei prediligo Alan Hollinghurst, la Shimazaki e nutro una venerazione smodata per Donna Tartt: “Dio di illusioni” è stato una rivelazione.

Che rapporto hai con il cinema e i fumetti? E quali sono i tuoi autori preferiti di questi due medium narrativi?

A quattordici anni sognavo di fare lo sceneggiatore. Inventare trame e dialoghi mi veniva facile. Purtroppo, è rimasto un sogno nel cassetto.

Ma la passione per quest’arte non è mai venuta meno. Prediligo i film in bianco e nero, specie quelli italiani degli anni Sessanta di Risi, Fellini, Monicelli, Bolognini, Wertmuller, Luciano Salce – solo per citarne alcuni. Nel loro cinema è condensato l’intero genere umano con le sue innumerevoli e irrisolte sfaccettature, l’amore, le velleità, le ambizioni, i sogni, le illusioni. Possiamo solo inchinarci davanti al loro talento.

Ovviamente, ci sono anche registi più giovani che trovo molto interessanti: Xavier Dolan e Françoise Ozon su tutti.

Per i fumetti il discorso è diverso. Non ho mai nutrito un forte interesse. Anche se trovo le storie di Hubert, con i disegni di Zanzim, originali e poetiche. Mi riferisco specialmente a “La mia vita postuma”, da poco pubblicato.

Un altro autore che mi piace è Giulio Macaione.

Ogni scrittore immagina un lettore ideale. O forse no. Per te esiste? Se sì, il tuo lettore ideale, per te, come è fatto?

Non credo che esista il lettore ideale, anzi, preferisco pensare a un pubblico più trasversale. Dall’adolescente al pensionato. Quando scrivo non penso mai a chi potrei rivolgermi. Forse, il primo lettore da soddisfare sono proprio io. Se l’idea di una storia non mi entusiasma, l’abbandono.

Quale storia in prosa non scriveresti mai?

Un poliziesco. Non saprei nemmeno da dove cominciare.

Ti andrebbe di raccontarci quanto (e come) ti sei allenato, in tutti questi anni, prima di esordire con il tuo primo romanzo pubblicato?

Ho scritto sei romanzi tra i quattordici e i ventitré anni. Poi una circostanza dolorosa mi fece abbandonare la scrittura. Chiusi i manoscritti, i taccuini con cui giravo e prendevo nota, in un cassetto, sforzandomi di non pensarci più.

Ma quel cassetto era un richiamo. Sapevo di avere un conto in sospeso con me stesso.

Anni fa, presi coraggio. Forse i tempi erano cambiati, più maturi. Tornai a scrivere. Pubblicai il primo romanzo, poi il secondo. Fino a “Cuore di serpente”.

Di cosa parla – se ti va di anticiparci qualcosa, mentre ci stai ancora lavorando sopra – il tuo prossimo libro?

Sugli amori tossici. Che per certi versi potrebbero essere quelli più intensi, irrinunciabili, che smantellano ogni logica, ma che fanno anche più male.

In fondo, alla fine della corsa del vivere quotidiano, tu perché scrivi storie?

Me lo sono chiesto diverse volte. Ho pensato che in fondo farei meglio a limitarmi a leggere i romanzi degli altri, perché la lettura è una passione che supera di gran lunga la scrittura.

Ci ho provato ma non è servito a niente. Le storie, i personaggi, quando cominciano a prendere forma e vita, è impossibile scacciarli fuori dalla testa.

Pertanto, scrivere è una necessità.

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Giovanni Montini è nato a Torino nel 1974 e vive a Roma. Abbandonati gli studi di antropologia, ha cominciato a lavorare nel campo della moda, collaborando con marchi internazionali e di prestigio. Colleziona portachiavi, viaggia in treno e legge molto: Moravia, Scerbanenco, Anaïs Nin e Almudena Grandes sono i suoi autori prediletti. Adora il cinema italiano degli anni ’60 e ha smesso di guardare la tv. Ha pubblicato Le considerazioni di una portinaia e altri racconti (Robin Edizioni),  Una ragionevole disobbedienza (LFA Edizioni). Cuore di serpente è il suo ultimo romanzo.

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