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Ombra mai più. Intervista a Stefano Redaelli

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Il romanzo Ombra mai più di Stefano Redaelli è il seguito del romanzo precedente Beati gli inquieti (https://www.satisfiction.eu/beati-gli-inquieti-intervista-a-stefano-redaelli) il cui protagonista, Angelantonio Poloni, è un paziente ricoverato in una struttura chiamata “Casa delle Farfalle” con la scusa di scrivere un romanzo sulla follia. Tre anni dopo Angelantonio lascia la struttura e si ritrova nella realtà dei pregiudizi, con un padre e una madre anziani e ormai non del tutto autosufficienti. Il titolo del romanzo è tratto da quello omonimo della prima aria dell’opera Il Serse di Händel. Questo a preannunciare una scrittura ricca di riferimenti letterari e musicali, oltre che saggistici, le frasi in un ritmo quasi elencativo che non perdono mai la capacità di tenere chi legge nel desiderio di continuare a farlo, mentre non manca una certa poesia nello sguardo sulla realtà, sguardo poetico perché nel descrivere quel che si vede, ci porta immediatamente in un ordine altro, invisibile e universale.

L’autore si interroga su cosa sia la follia e come il pregiudizio strutturi anche le relazioni umane. La scrittura di Redaelli è tanto lineare quanto profondamente complessa. Come le radici degli alberi. Il romanzo scava nella terra delle nostre opinioni e si apre anche verso un significato ulteriore. Ma chi scrive? L’io narrante chi è? la voce che narra la follia, la vive riuscendo ad abbandonare del tutto l’idea e la pratica dell’io e dell’altro. Non contrappone entità, non sembra tener presente la differenza (che tra l’altro non esiste) tra malattia e normalità. L’autore sta nel transito, nell’indistinzione dei ruoli, del silenzio attivo dell’ascolto, abbandonando sé stesso ma pure la consapevolezza dell’altro. Non è un ascolto intellettuale che descrive un caso clinico. La voce che narra, sa collocarsi tra gli elementi del romanzo in una dimensione che sfiora il realismo psicotico sulla soglia che separa l’io e l’altro, li separa e li unisce, ma lascia che siano, ognuno nella propria desiderante singolarità, soggetti in divenire. Corpi senza etichetta. La scrittura di Redaelli, ancora meglio in questo romanzo, traccia segni di carne nell’ineffabile mistero della mente umana.

«Sono andato oltre. Quando capisci il trucco, devi sfruttarlo fino in fondo. Il trucco è trasformare immagini e parole finché non fanno più male.»

Mi vengono in mente vari passaggi di Settologia I-II, L’altro nome, dello scrittore e drammaturgo norvegese Jon Fosse, in cui il protagonista dice che l’unico modo di cancellare le immagini è dipingerle; in questo caso, invece, Angelantonio Poloni vuole “trasformare”: cosa significa trasformare immagini e parole finché non facciano più male? In che modo la letteratura può lavorare sul trauma, sull’errore, o quel che si reputa tale, e renderlo creativo, comunicabile, cioè parte del desiderio che è di ognuno di noi?

La separazione dall’immagine attraverso la sua rappresentazione è il primo atto trasformativo: il distanziamento. Si crea (anche) per  liberarsi da un’immagine che ci tormenta, per allontanarla da noi, come scriveva Antonin Artaud: “Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non, di fatto, per uscire dall’inferno”. Non deve essere necessariamente un’immagine infernale, può anche essere salvifica, che, tuttavia, ci tormenta perché non la capiamo, afferriamo, e continua a visitarci, come un’inquietudine senza nome, finché non riusciamo a darle una forma, verbale, visiva, musicale. La scrittura è una delle operazioni di trasformazione del trauma così come dell’epifania angelica. Già ricordare un evento vissuto è un’azione creativa. Non esiste un ricordo oggettivo. Lo stesso evento, ricordato in momenti diversi della nostra vita, ci apparirà differente, si rivestirà dello sguardo del momento storico da cui lo evochiamo. Ne perderemo frammenti, aggiungeremo dettagli: lo plasmeremo con lo spirito del momento. E questo accade ricordando. Quando si passa, poi, alla scrittura, l’azione creativa diventa decisiva. Il ricordo viene non solo trasformato, ma addirittura drammatizzato: assume una trama interna, si rappresenta attraverso personaggi che lo mettono in scena con le loro voci. Diventa, in tal modo, comunicabile, grazie alla finzione della parola. Quel ricordo (trauma o epifania ineffabile) non è più una verità né una menzogna: è una finzione, e come tale può essere condivisa.

«Ombra mai fu

di vegetabile,

cara ed amabile,

soave più.

Così recita l’aria iniziale del Serse di Händel.»

Ombra mai fu è un esplicito riferimento all’opera seria in tre atti di Händel. La musica e i riferimenti poetici e letterari non mancano, così come la stessa costruzione del romanzo non manca di musicalità, ritmo, e armonia. In un altro punto del romanzo, in un dialogo con la dottoressa, il protagonista afferma che «il silenzio del poeta è la parola più alta». Che rapporti ha il tuo romanzo con la poesia e la musica?

Ne è permeato. Poesia e musica si confrontano continuamente con il silenzio: dell’indicibile, dell’ineffabile. Trasformano il silenzio in parola poetica, musica altissima. La follia (che Clemens Brentano “definiva sorella sfortunata della poesia”) condivide con la poesia e con la musica questa tensione drammatica, deve superare una doppia afasia della malattia e dello scandalo (perché è ancora vissuta così, la malattia mentale, a quarantaquattro anni dalla Legge Basaglia, come uno stigma, una vergogna). Il protagonista di Ombra mai più, tornando a casa dopo un soggiorno di tre anni nella Casa delle farfalle, si porta dietro un’aurea di follia, che è la sua ombra. L’ombra della malattia imbarazza, nasconde e ammutolisce: è anche ombra del manicomio, non come luogo fisico, ma come spazio mentale, modo di pensare la follia. Eppure, il protagonista vuole trasformare l’ombra, il silenzio a cui la follia sarebbe destinata, in parola poetica e musica. Vuole darle una forma nuova, che ne riveli l’umanità e la saggezza in essa celate.

«Patologica non è la scrittura, ma la comunicazione. È venuto a mancare un canale vitale per gli scrittori: quello con gli editori.

Oggi lo scrittore è costretto al monologo.

Lo scrittore è orfano.

Deve farsi da padre e madre: concepirsi e partorirsi.»

Questo passo evoca l’inizio del romanzo, in cui la voce narrante sostiene che la letteratura ha fame di noi e non il contrario. Lo scrittore, in qualche modo, è scritto. In questo passaggio, invece, l’attenzione ruota intorno al rapporto tra editoria e scrittura: la comunicazione è patologica. Che differenza sussiste, secondo te, fra letteratura e comunicazione oggi? E cosa intende il protagonista per “comunicazione patologica”?

La comunicazione patologica è autoreferenziale, opportunista, manipolatoria. Il protagonista racconta i tragicomici tentativi di “uno scrittore in cerca di un editore”. Nessuno lo ascolta, legge, e per questo il suo parlare diventa monologo, il suo presentarsi autocelebrazione, il suo proporsi svilente incensamento dell’editore, che non c’è. Se ci fosse, se fosse soggetto di un dialogo, la comunicazione sarebbe sana, autentica. La ricerca di un editore è una metafora del mancato ascolto della follia, che si perpetua, anche dopo la chiusura dei manicomi, in disinteresse per le storie di follia. I folli sono sempre “fuori collana”. La letteratura è la Terra promessa del linguaggio, scriveva Calvino negli anni Ottanta. C’è bisogno di letteratura anche per curare quella peste del linguaggio ancora presente e insidiosa, per restituire alle parole il loro spirito di parabole, “quaternità perfette” (bellissima definizione di Raimon Pannikar): “di un parlante che parla a qualcuno emettendo alcuni suoni carichi di senso”, per evitare che vengano manipolate. E questo accade quando viene a mancare uno degli elementi della quaternità, o un legame tra di loro.

«La tesi di Law Yuk Sing è semplice: qualsiasi problema-questione-situazione può essere rappresentata e analizzata in uno spazio tridimensionale, i cui assi sono:

1) i nostri valori,

2) le nostre convinzioni riguardo a quella situazione,

3) la nostra conoscenza logico-empirica della situazione.»

Il romanzo che hai scritto non tratta la problematica della patologia mentale, non solo, ma racconta le strategie messe in atto dal protagonista per riprendere possesso del suo mondo e della sua vita. Law Yuk Sing è la romanizzazione del nome di Klaus Colanero e alla sua opera hai attinto per approfondire l’aspetto ‘clinico’ del romanzo, sicché il tuo lavoro può benissimo collocarsi in un’aerea in cui romanzo, finzione, scienza e poesia si sovrappongono e si alimentano a vicenda. Come hai lavorato al personaggio di Angelantonio e soprattutto come sei riuscito ad amalgamare i molteplici aspetti del romanzo?

Angelantonio è uno studioso di letteratura, eterno dottorando a causa dei suoi “problemi psichiatrici”, che gli impediscono di portare a termine studi e progetti. Si nutre di poesia, spiritualità e cerca nella filosofia della scienza strumenti per stare al mondo anche razionalmente. Il saggio che legge nel romanzo s’intitola “Il pensiero tridimensionale”, liberamente ispirato a un saggio del collega (e amico) Klaus Colanero. Un personaggio con tali inquietudini e interessi, esigenze e difficoltà, permette di sviluppare il romanzo in diverse direzioni di ricerca, mettendo in continua contrapposizione e dialogo le molteplici forze in gioco: letteratura, scienza, spiritualità, scrittura saggistica e poetica, ricerca e finzione letteraria. È il personaggio a tenere insieme aspetti e forze così diverse, che lo spingono in direzioni (in apparenza) diverse, costruendo la trama.

«Invece ho visto Rami.

Lo vedo ogni giorno, alla stessa ora, quella in cui prima della reclusione leggevo, sulla panchina, sotto il platano. »

Il protagonista ‘adotta’ un platano, gli alberi uniscono terra e cielo, metafisica e radici, diventa luogo di conoscenza, di meditazione e memorie. All’ombra del platano avviene l’incontro con Rami. Rami è un ragazzo mezzo italiano mezzo egiziano, si sforza di andare a scuola, è membro di una baby gang, e si affeziona, per così dire, al protagonista cui chiede un aiuto per una tesina. Rami utilizza il «grosso parlare»: il romanzo, come il platano, sa cogliere altezze psichiche, poetiche e la materialità a volte brutale di tutti i giorni, sensibilità e ruvidezza. Contraddizioni, complementarità. Come mai proprio il platano e perché l’introduzione, ben riuscita, del «parlare grosso»?

Il platano è una di quelle immagini di cui parlavamo all’inizio dell’intervista. Mi appariva con insistenza chiedendo spazio nel romanzo. Inizialmente pensavo che il platano fosse lo spazio di incontro del protagonista con se stesso e con Rami. Poi ho scoperto che era anche una metafora della casa: la sua ombra è buona, è protezione paterna. Il platano ha una chioma e ha radici, che si estendono, invisibili, verso il cuore della terra (e verso il mare). Seguire il percorso delle radici vuol dire immergersi nel profondo della coscienza, dell’anima. Così il platano ha iniziato a crescere nel romanzo, in quanto essere vivente poteva ammalarsi, anche lui, diventare oggetto di cura (Ombra mai più è soprattutto una storia di cura). A un certo punto mi sono accorto che era a tutti gli effetti un personaggio, gli mancava solo una voce… La ricerca e costruzione di una voce: della follia, delle marginalità, dello slang dei “grossi” è cruciale nel romanzo. Ascoltare, accogliere, decifrare il “grosso parlare” della baby gang va di pari passo, per il protagonista, con l’ascolto, accoglienza, la decifrazione della voce della propria umanissima follia.

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