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Distopia pop. Intervista a Francesca Guercio

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A gennaio del 2021, nel pieno della seconda ondata pandemica, era uscito nella Collana Perkins di Polidoro Editore il  romanzo d’esordio di Francesca Guercio, “O d’amarti o morire”. Ricordiamo che la casa editrice napoletana ha chiamato Perkins la sua Collana ammiraglia in onore di quel Maxwell Perkins, editore statunitense che “scoprì” Ernest Hemingway, F. Scott Fitzgerald, Thomas Wolfe. Nella collana Perkins a comporre il catalogo della casa editrice napoletana una serie di voci originali e promettenti, capaci di giocare con le forme e i generi della narrativa e, quindi, capaci di offrire nuovi spunti di riflessione su temi sociali. Un coro di voci varie, capaci di raccontare al meglio il nostro tempo e con spirito “geniale” alla maniera di Maxwell Perkins. Il libro d’esordio della Guercio, a pieno titolo, rientrava in questo spazio editoriale della casa editrice.
A distanza di un anno e mezzo, in questo novembre, è arrivato nelle nostre librerie il secondo libro di Francesca Guercio e nella medesima Collana: una commedia dalla prosa ironica e arguta dal titolo “Distopia Pop”.
Un romanzo che racconta la precarietà e l’instabilità non solo professionale ma pure nelle relazioni e lo fa attraverso una protagonista colta e sarcastica, dal nome Clotilde, che di professione fa la storica d’arte freelance. Una donna che, da una parte all’altra della Città Eterna, si barcamena affannosamente per sbarcare il lunario mentre, in una situazione surreale, un comitato extraterrestre sta decidendo quelle che saranno le sorti del pianeta Terra, decidendo di ascoltare le canzoni pop più famose della storia della musica.

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Francesca a partire da questo titolo particolarissimo, “Distopia pop”, ci porti nel dietro le quinte di lavorazione di questo libro raccontandoci anche il tuo percorso nella scrittura e il tuo esordio, sempre con Polidoro Editore , col precedente romanzo?

Descrivo un mondo in cui tutto è il contrario di ciò che sarebbe opinabile che fosse e accompagno la vicenda con una colonna sonora di canzonette celebri. Tac! A fine stesura non mi si presentavano
alternative al titolo. In realtà, più avanti ho pensato di cambiarlo perché il termine “distopia” è ormai decisamente abusato ma Antonio Esposito, che lavorava in Polidoro e che mi ha accompagnato
durante la fase di editing, è stato categorico nel farmelo mantenere. «È potente», ha detto; in un modo super professionale che non ammetteva repliche. Così, insomma, la mia storia racconta una società in cui prevalgono il disagio, la fatica, le disuguaglianze economiche, lo spreco di talenti, l’aridità emotiva, la rabbia, le devianze e la superficialità nelle comunicazioni, le turpitudini lavorative; racconta una società invivibile in cui tutti, pure, vivono; racconta la società contemporanea. Come luogo feroce, deforme, in cui il male è talmente minuto da infiltrarsi ovunque e da risultare grottesco, banale, insensato e noioso nello stesso tempo. Nelle mie intenzioni Distopia pop è, prima di tutto, un romanzo di denuncia.
Tuttavia, rimane un romanzo. Dietro le quinte, pertanto, si vedrebbe l’autrice intenta a trasformare in eventi e personaggi di fantasia l’esperienza diretta dei meccanismi che regolano le “carriere” nel mondo accademico; il vissuto frustrante del lavoro negli ambienti culturali, che non presenta limiti di orario e confini di competenze e che spesso non è retribuito; le analisi condotte con gli amici
fraterni sulla spietatezza del sistema neoliberista, sulla crudeltà cui quasi tutti ci pieghiamo per non spezzarci, per non morire. Dietro le quinte si vedrebbe un’autrice che costringe, in quelli che nel
romanzo chiama “i corsivi ortogonali”, le frattaglie dell’umano in modo da poter poi strappare ai lettori sorrisi e qua e là una schietta risata in quella che nel romanzo chiama “la cronografia”; ovvero il racconto semplice delle vicende della protagonista, Clotilde.
E questo laboratorio di trasmutazioni è lo stesso che si trova anche in O d’amarti o morire; dove il filo conduttore della storia è il dolore che sempre necessitano le relazioni affettive e che talvolta diventa eccedente.
Quindi, facciamo che il laboratorio di trasmutazioni del dietro le quinte sono io stessa, e non se ne parla più. Se non fosse stato così, se non fossi stata capace di trasformare, di comprendere e ricomprendere, di elaborare e rivoluzionare probabilmente la mia composita vicenda lavorativa mi avrebbe reso una biliosa nichilista. Invece alla fine sono diventata una consulente filosofica; aiuto le
persone ad abitare meglio se stesse, il proprio tempo, la relazione con gli altri e con gli eventi spesso spiacevoli della vita, a leggere il disagio e i lutti e la sofferenza con nuova chiarezza allo scopo di
farne occasioni esistenziali dotate di senso. Proprio il contrario del nichilismo, insomma.

Una cosa che ci piace molto, in questo spazio di approfondimento settimanale, è il poter raccontare un romanzo attraverso l’approfondimento dei personaggi che lo animano. Partendo da Clotilde ci dettagli gli snodi principali e gli altri personaggi di Distopia pop?

Mi collego alla domanda di prima, provando a spiegare Clotilde attraverso ciò che la distingue dalla protagonista di O d’amarti o morire. Di fatto, sono due ingenue alle prese con il dolore esistenziale. Però mentre la prima ha potere, la seconda è una vinta. Una vinta per forza. La donna senza nome di O d’amarti o morire si misura con una manifestazione del dolore che in qualche modo dipende da sé: anche se dapprima subisce i comportamenti malsani dell’uomo di cui è innamorata, poco alla
volta impara che può “riscriversi”, può cambiare, può smettere di agire da vittima. La protagonista di Distopia pop invece si confronta con una manifestazione del dolore che deriva dalla società, una società marcia nella quale l’unico potere concesso all’individuo è di non nuocere, di non infierire. La metafora degli alieni che sembrano rappresentare il peggio della grettezza, della stupidità e dell’indifferenza umana, e che, pure, hanno l’autorità di distruggere il pianeta Terra allude, appunto, a questa dismisura vischiosa.
I personaggi con i quali Clotilde si confronta sono forse non meno ingenui eppure diversamente ingenui rispetto a lei; in qualche modo meglio integrati. Aldo, il suo amico fraterno, per via di una naturale disposizione all’informatica ha trovato almeno una propria collocazione professionale; Giusi, la capo-redattrice, ha scelto di aderire in maniera anodina a un modello politico che la tutela dai dubbi insidiosi cui è soggetto il libero pensiero, il nipote Francesco trasvola sulla quotidianità grazie a un istinto animale che lo rende capace di miscelare perfettamente leggerezza e profondità;
Lea e Irene le restituiscono le sue nevrosi come specchi perfetti; Paolo… be’, Paolo con la sua smisurata cultura trasformata in fragilità dagli ingranaggi del mondo universitario è, come recita il
titolo del capitolo che lo riguarda, “la prova che il sistema è una merda”.

Soffermandoci sulla scelta formale adottata e lo stile ci parli anche della necessità, in questi tempi, di avere voci al femminile particolarmente originali per incuriosire il pubblico dei Lettori?

Rispondere a questa domanda è per me davvero difficile. Intanto, trovo sempre scomodo sostare tra gli interrogativi che riguardano valutazioni basate sulle differenze di genere. Così come, del resto,
sulle differenze geografiche, o d’età, o di altre categorie resistenti. Preferisco esprimermi sulle ragioni per cui trovo o non trovo ragguardevole una persona oppure originale una voce, in senso
assoluto. Poi, mi chiedo pure se l’originalità è un valore nel suscitare curiosità e se la curiosità è un
valore su cui puntare per allargare il numero dei lettori. La tua richiesta, lo capisco, è sostenuta dalla tua esperienza di libraio e, in questo orizzonte di senso, ha una propria specifica cogenza eppure,
da lettrice prima ancora che da autrice, riconosco di non potere rispondere.

Non ci resta, allora, che leggere “Distopia Pop” di Francesca Guercio!

Antonello Saiz

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