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Paolo Maggis inedito. Iodio

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Uscì inebetito.

Aveva smesso di seguire il discorso del dottore da quando questi gli aveva comunicato che le analisi non evidenziavano alcuna alterazione, nessuna ragione apparente, nemmeno i valori dello iodio.

Fu come se di colpo tutto il suo universo venisse risucchiato o sputato via.

Non capiva.

Tutto sembrava perfetto ma a quel tutto mancava qualcosa di fondamentale, una specie di piacere, un sapore o la possibilità di poterlo gustare. Quest’assenza sembrava aver scavato una fossa dove gettare i cadaveri dei momenti passati per poi sotterrarli definitivamente. Un passato senza meraviglia, senza un guizzo di follia. Un passato qualsiasi, tiepido, comune, trascurabile. Al suono ovattato di ogni tonfo, seguiva solo silenzio.

Desiderò la quiete del sonno così da non doversi sentire colpevole di soffrire la pressione costante di questa mancanza e la fatica di cercare ostinatamente una soluzione ad un malessere senza nome e che nemmeno la medicina poteva spiegare.

Le parole erano insufficienti.

Si rivide bambino, incapace di esprimere i propri sentimenti. Si sentì insicuro ed indifeso come allora, annaspando ciecamente nella speranza di poter trovare un appiglio al quale afferrarsi.

Si sentiva in obbligo di anestetizzarsi da quel dolore per poter essere come tutti volevano: felice. E non riuscendoci tirava i muscoli zigomatici per mostrare ai genitori quel sorriso che li avrebbe compiaciuti.

Una specie di nebbia iniziò a intorpidirgli il pensiero.

Ma la disperazione é una bestia strana capace di arrivare strisciante e lentamente annidarsi nella fragilità. La vera disperazione non ha bisogno di teatro o platea, sussurra per poi mostrarsi calma, razionale e lucida.

Quella sera non riuscendo a dormire pescò dal vaso all’ingresso un mazzo di chiavi.

Disse alla moglie che andava a fare un giro e prese la sua vecchia Uno argento che aveva in progetto di restaurare, il ricordo di una gioventù lontana sfumata nell’apatia della vita adulta.

L’accese e si diresse ai cantieri sud, passati i ponti parcheggiò.

Aveva letto tutte le istruzioni su internet tante volte da saperle a memoria.

Preparò una bottiglia d’acqua sul sedile del passeggero nel caso gli fosse venuta sete. Poi scese. Appoggiato alla macchina bevve una birra in lattina guardando il fumo grigio della città offuscare il cielo.

Quindi aprì il bagagliaio ed estrasse un tubo. Ne fissò un estremo al tubo di scappamento e l’altro lo introdusse nell’abitacolo attraverso il finestrino del passeggero.

Si sedette al posto del conducente, si mise la cintura di sicurezza e legò le caviglie ai bracci in ferro che uniscono il sedile alla guida dentata. Chiuse le portiere ed accese il motore.

Il fumo entrava grigio, carico del suo odore intenso a benzina. L’abitacolo si riempiva di una sostanza nebbiosa simile e familiare a quella che cresceva dentro di lui nei momenti in cui non voleva pensare più.

Pensò a Dio. L’immagine della madre che camminava nella piccola stanza con la luce giallastra quando da bambino gli insegnava le preghiere della sera.

Gli occhi iniziarono a bruciare e dovette chiuderli. A tentoni cercò la bottiglia d’acqua per placare la sete crescente.

Tornò in quel ricordo lontano. La voce della madre, il sonno che cresceva mentre la testa sprofondava nel cuscino tiepido e gli occhi che stentavano a rimanere aperti, un apri-chiudi intermittente e meccanico quasi fossero balbuzienti.

Si sentì bene, si sentì a casa.

La mano allentò la presa e la bottiglia cadde riversando il suo contenuto sul tappetino di moquette.

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