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Paul Roland anteprima. Il sogno e l’incubo. Vita e opere di H.P. Lovecraft

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Paul Roland, cantautore di culto che, a partire dagli anni ’80 ha firmato alcune “gemme” a cavallo tra psichedelia e gusto noir come Danse Macabre e Re-Animator – nel segno di un profondo legame nei confronti della letteratura gotica e dell’orrore – firma Il sogno e l’incubo. Vita e opere di H.P. Lovecraft, biografia dello scrittore di Providence, che Alcatraz si accinge a riportare in libreria con la traduzione di Alba Bariffi. Un testo imperdibile sia per i cultori del “padre” di Chtulhu e YogSothoth, sia per un pubblico che voglia iniziare ad accostarsi al fondatore della moderna letteratura dell’orrore. La biografia di Roland, infatti, ricostruisce in maniera coinvolgente e allo stesso tempo approfondita la figura di H.P. Lovecraft, analizzandone la formazione, l’opera e il pensiero, mettendo in evidenza la sua influenza sull’immaginario e sulla cultura contemporanea – dalla letteratura fino al cinema e al fumetto – e un talento che non fu riconosciuto quando era ancora in vita. Un importante nucleo documentario di riferimento per Roland è stato costituito dall’epistolario di Lovecraft, aristocratico impoverito e isolato che seppe dare voce alle paure soprannaturali e ai sentimenti più oscuri trasformandoli in storie. Una bomba lanciata nella società e nella patinata cultura americana tra le due Guerre, che ha continuato a risuonare con i suoi effetti fino a oggi. Della biografia di Roland anticipiamo la preziosa introduzione.

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Stephen King ha definito Howard Phillips Lovecraft (1890- 1937) «il maggior professionista del racconto horror classico del XX secolo» e pochi lettori di narrativa fantastica potrebbero dissentire. L’influenza di Lovecraft sulla narrativa fantastica e in particolare sull’horror è incalcolabile, mentre il suo impatto sulla cultura popolare si è dimostrato tanto durevole quanto pervasivo.

Gli è ampiamente riconosciuto di aver formulato il carattere essenziale dell’horror moderno, con la stessa completezza con cui J.R.R. Tolkien ha stabilito gli elementi basilari del fantasy. Prima di Lovecraft non esisteva un genere horror in quanto tale, ma solo un’ampia categoria che abbracciava la narrativa del fantastico e del soprannaturale, esemplificata dai racconti del terrore a sfondo psicologico di Poe, dalle fiabe dal sapore esotico e onirico di Lord Dunsany e dall’assortimento di agghiaccianti storie di fantasmi e melodramma gotico che fuoriuscivano dalla penna di Mary Shelley, Horace Walpole e Bram Stoker. Lovecraft ha creato il racconto dell’orrore moderno abbandonando le ville infestate e i castelli zeppi di ragnatele prediletti dagli scrittori del gotico, insieme ai loro abitanti soprannaturali, per collocare invece le sue storie in un’ambientazione contemporanea, in particolare nelle tranquille strade suburbane, nei campus universitari e nelle strade di periferia della sua amata Providence, stato di Rhode Island, nel New England. In questo pacifico idillio, rappresentato dall’immaginaria cittadina di Arkham e dei suoi dintorni, fanno la loro apparizione indicibili orrori e un pantheon di divinità primordiali alla continua ricerca di un portale per entrare nel nostro mondo, di cui desiderano rimpossessarsi. Con questa sua intuizione l’autore americano avrebbe ispirato generazioni di scrittori diversi fra loro come Stephen King, Robert Bloch, Clive Barker, Alan Moore e Neil Gaiman, e dato vita a creature che continuano a esistere in innumerevoli videogiochi, graphic novel, arte fantastica, film e canzoni rock.

Howard Phillips Lovecraft morì all’età di 47 anni senza aver visto una singola raccolta dei suoi racconti o romanzi brevi pubblicata da una casa editrice maggiore. Per tale motivo lasciò questo mondo con la convinzione di aver fallito nel realizzare la sua ambizione principale: quella di essere riconosciuto come scrittore serio e significativo di quella che era allora comunemente chiamata weird fiction, la narrativa dell’insolito e del soprannaturale. La reputazione che si era guadagnato negli anni Venti e all’inizio dei Trenta fra i lettori di varie riviste pulp, in particolare l’ormai leggendaria Weird Tales, gli aveva assicurato nel suo paese un folto seguito di appassionati, ma scarso rispetto tra gli accademici e nei circoli letterari che avrebbe desiderato frequentare. Dalla sua voluminosa corrispondenza (si stima abbia scritto più di centomila lettere ad amici, ammiratori e colleghi scrittori) sembrerebbe che si fosse rassegnato al fatto di non aver raggiunto lo status sociale e il successo cui aveva aspirato. Tuttavia non ne era amareggiato, avendo la consolazione di essere stato molto ammirato dai colleghi per i suoi eloquenti contributi in quello che al tempo era noto come “giornalismo amatoriale”. In questa professione accessoria (per la quale veniva raramente o per nulla pagato) aveva trovato una tribuna per esprimere le sue opinioni su ogni argomento che lo interessava o lo faceva infuriare, nonché un pubblico appassionato e riconoscente con il quale poteva scambiare opinioni su temi che andavano dalla politica all’arte fino a un’acuta critica dei suoi contemporanei. Essa costituiva anche una libera valvola di sfogo in cui poteva incanalare le sue infaticabili energie mentali e creative. Fu solo decenni dopo la sua morte prematura per un tumore all’intestino (causato dalla cattiva alimentazione cui era costretto dalla penuria di mezzi) che la sua narrativa finalmente trovò un pubblico internazionale, e il suo nome acquisì la fama e lo status quasi mitico di cui gode oggi. Lovecraft era evidentemente un uomo fuori dal tempo e un individuo dalla personalità assai conflittuale che cercava una via di fuga dalle difficili circostanze della vita attraverso voli di fantasia incomparabili a quelli di un qualsiasi altro scrittore prima di lui.

Si considerava un colto gentiluomo abbiente, eppure già quando raggiunse l’adolescenza, il retroterra privilegiato e protetto della sua infanzia non era più che un caro ricordo. Il patrimonio di famiglia era andato perduto, il padre e il nonno erano morti lasciando il giovane Lovecraft alle cure della nevrotica madre vedova e delle zie nubili. Le loro coccole e la loro indulgenza nutrirono involontariamente il suo atteggiamento di antagonismo verso il mondo esterno, instillandogli pretese che non poteva permettersi di raggiungere o mantenere. Per tutta la giovinezza aveva aspirato a essere uno studioso e un astronomo, ma fu costretto ad ammettere che gli mancavano le capacità di padroneggiare la matematica di livello superiore necessaria per studiare scienze a livello universitario. Era un autodidatta giunto a livelli notevoli in cultura classica, latino, letteratura, storia antica e discipline scientifiche, eppure per tutta la vita adulta si trovò senza lavoro – o inabile a svolgerlo – semplicemente perché non era disposto a rinunciare al ruolo che si era autoassegnato, quello di un aristocratico decaduto che era troppo orgoglioso e privo di senso pratico per sporcarsi le mani guadagnandosi da vivere. Ciò tuttavia non avvenne per mancanza di dedizione o autodisciplina. Si applicò seriamente al giornalismo amatoriale, all’opera di ghost writer per aspiranti autori, alla stesura di risme di poesia classicista che raramente veniva pubblicata e alla scrittura di lunghissime lettere, quando avrebbe potuto impiegare più proficuamente il tempo lavorando ai propri racconti. Ma le borie aristocratiche e il bisogno di difendere la propria immagine gli impedirono di cercare impieghi regolari, facendo di lui un intellettuale autodidatta e un outsider. Era una descrizione che riconosceva e accettava: «So di essere un estraneo, uno straniero in questo secolo», come scriveva in chiusura de L’Estraneo.

Che vivesse da recluso è una falsa credenza. Come vedremo, Lovecraft viaggiò in lungo e in largo e coltivò una vasta cerchia di amicizie, soprattutto giovani cui faceva visita periodicamente e con i quali gli piaceva recitare la parte dell’anziano benefattore, definendosi spesso vecchio o nonno quando era ancora nella mezza età. Questa immagine dell’estraneo distaccato era stata da lui costruita in parte per distanziarsi dai suoi contemporanei più giovani, che forse vedeva ottenere più successi di lui nella vita, ma era anche il prodotto di un’infanzia molto particolare durante la quale venne condizionato a vedersi come fisicamente impacciato, fragile e anormale, sebbene fosse alto un metro e ottanta e avesse un  fisico imponente. Purtroppo sua madre era un’isterica che convinse il figlio di essere brutto, deforme e predisposto a ogni genere di disturbi nervosi. Di conseguenza egli soffrì di sindrome da affaticamento cronico, malattie psicosomatiche, emicranie accecanti ed esaurimenti che si presentavano quando non riusciva a gestire lo stress oppure quando le aspettative erano per lui eccessive da affrontare e soddisfare. Per Lovecraft il vero mostro era quello che vedeva allo specchio, e l’unico modo in cui riusciva a esorcizzare i suoi demoni era proiettarli sulla pagina scritta, nonché, cosa che non gli fa onore, sulle razze straniere che temeva stessero violando il suo idillio coloniale. E poi c’erano i sogni. Fin dall’infanzia fu tormentato da incubi vividi, così agghiaccianti e realistici che non riusciva a liberarsene neppure durante le ore di veglia. Divenne un uomo pieno di ossessioni e con un disperato bisogno di reprimere le sue paure. La paura di soccombere alla malattia mentale come il padre e la madre, che finirono entrambi i loro ultimi giorni in manicomio; paura di perdere il proprio status sociale, paura della povertà e paura del fallimento, che sarebbe stato la più grande umiliazione di tutte perché avrebbe significato che Howard Phillips Lovecraft, ultimo di una lunga stirpe illustre del New England, era la più meschina di tutte le creature: una persona mediocre. Su questo punto, perlomeno, era destinato a essere smentito

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