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Pedro Lemebel anteprima. Folle affanno. Cronache del contagio

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Arriva in Italia, per Edicola Edizioni nella traduzione di Silvia Farloni, un nuovo libro dell’iconico scrittore sudamericano Pedro Lemebel. Folle affanno, cronache del contagio è uno dei manifesti più trasgressivi e geniali dell’artista e scrittore cileno, un vero ibrido culturale in bilico tra autofiction e opera narrativa e documentario socio-sessuale. Una delle opere più fondamentali della letteratura queer e del femminismo transizionale, un racconto lucidissimo e al contempo allucinato delle (non) vite delle locas latine ai tempi della dittatura di Pinochet e al proliferare del caos dovuto all’epidemia di AIDS.

Come accennato Lemebel è anche un’icona artistica, il suo storytelling evade dalle mere convenzioni letterarie e narrative e si ritaglia una posizione anche nel vestiario. Le sue denunce sociali (anti-capitaliste ma anche contro un comunismo non inclusivo) nascevano anche dal suo queer-coding, dal suo vestiario estroso a base di pailettes, scarpe col tacco, pellicce, abiti femminili e trucco. Fu capace di scarnificare l’opinione pubblica e di traslare il linguaggio ostile in atti di autodeterminazione individuale, come nel caso del termine locas (pazze) usato come dispregiativo e normalizzato e poi reso motivo di vanto da Lembel per descrivere i membri di una comunità omosessuale e transessuale tra cui anche le crossdesser.

Tra le considerazioni più interessanti che voglio mettere in luce sono gli spaccati socio-locali di Lemebel tra cui le riflessioni sul meticciato, la marginalità omosessuale e in particolar modo la normalizzazione della sfera sessuale all’interno dell’ecosistema indigeno. Un manifesto queer nel folklore latinoamericano l’avevo trovato, con piacevole sorpresa, nel romanzo di Brenda Lozano Streghe, dove la femminitation di alcuni individui (chiamate muxe) veniva analizzata in modo approfondito. Dalle muxe della Lozano fino agli emarginati di Lemebel si evince la distorsione prospettica che attraversa tutto il sud-centro America, ovvero che non si può insorgere soltanto contro l’omofobia ma anche contro il classismo, il razzismo. Uno dei punti chiavi, che reputo geniali, della lettura critica di Lemebel è la contro-narrazione del colonialismo e della globalizzazione, in tal senso si attua una retorica di decolonizzazione mettendo al bando le strutture stereotipanti e di sudditanza che intercorrono tra i privilegiati e gli emarginati.

Cristiano Saccoccia

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Forse, l’omosessualità facoltosa non è mai stata un problema sovversivo capace di alterare la sua immacolata morale. Forse c’erano troppe locas di destra che appoggiavano il regime. Forse la puzza di cadavere era smorzata dal profumo francese delle checche dei quartieri alti. Comunque, il fetore mortifero della dittatura fu il preludio dell’AIDS, che fece la sua comparsa all’inizio degli anni Ottanta. Di quella sinossi emancipata rimase soltanto la UNCTAD, quel gran elefante di cemento che per molti anni ospitò i militari. Poi la democrazia iniziò a ristrutturare le terrazze e i cortili, dove ormai non ci sono più le sculture donate dagli artisti dell’Unidad Popular: negli enormi auditorium e sale conferenza, oggi si realizzano incontri e seminari su omosessualità, AIDS, utopie e tolleranze. Di quella festa esiste soltanto una foto, un cartoncino sbiadito nel quale riaffiorano i volti froci sfocatamente esposti allo sguardo del presente. La foto non è bella, ma salta subito all’occhio la militanza sessuale del gruppo che ritrae. Incorniciate da lontano, le loro bocche sono eco di risate e gesti congelati dal flash dell’ultimo brindisi. Frasi, proverbi, smorfie e battute appese alle labbra e sul punto di cadere, sul punto di sprigionare l’ironia con il veleno dei loro baci. La foto non è bella, è mossa, ma la nebbia dell’immagine fuori fuoco allontana per sempre l’inalterabilità del ricordo. La foto è sfocata, forse perché il tulle rovinato dell’AIDS riveste la doppia scomparsa di quasi tutte le locas. Quella nebbia è una delicata benda di cellophane avvolta intorno alla vita della Pilola Alessandri, che appoggia i suoi froci fianchi sul lato destro della tavola. Lei si comprò l’epidemia a New York, fu la prima a portarla in Cile in esclusiva, la più autentica, la nuova moda gay per morire. L’ultima tendenza funebre che la smagrì come nessuna dieta era riuscita a fare. Divenne pallida e secca come una modella di Vogue, stirata e chic come un sospiro di orchidea.

L’AIDS le spremette il corpo e morì ristretta, austera, stilizzata, magnifica nell’economia aristocratica della sua meschina morte. La foto non è bella, non si sa se è in bianco e nero o se il colore è fuggito verso paradisi tropicali. Non si sa se il rossore delle locas o delle smorte rose della tovaglia di plastica è stato lavato via dalla pioggia e dalle inondazioni quando la foto era appesa a un chiodo nella casetta della Palma. È difficile decifrarne il cromatismo, immaginare i colori delle camicette sgocciolate dalla brinata dell’inverno povero. L’unico colore che ravviva la foto è un’aura gialla di umidità. Soltanto quell’impronta ammuffita accende la carta, inondata dalla macchia color seppia che attraversa il petto della Palma. La trafigge, inchiodandola come una farfalla nell’insettario dell’AIDS popolare. Lei lo prese in Brasile quando, stufa dei militari, vendette il banco del pollo che aveva al Mercado de La Vega e decise che sarebbe andata a battere le spiagge di Ipanema. A cosa serve essere una loca se non per vivere di carnevale al ritmo della samba? E poi, con il dollaro a 39 pesos, la pignatta carioca era a portata di mano. L’opportunità di essere regina per una notte al costo di una vita. E allora? Disse all’aeroporto imitando le ricche, ognuna è libera di spendere quel che ha. E l’AIDS fu generoso con la Palma, che batteva le strade rivoltandosi con qualunque morto di fame le chiedesse del sesso. Si potrebbe quasi dire che l’AIDS le fu servito su un vassoio, spartito e distribuito fino alla sazietà tra i vicoli bollenti di Copacabana. La Palma si bevve il sarcoma di Kaposi fino all’ultima goccia, come riempiendosi della propria fine senza pensarci. Bruciando per la febbre, tornava all’arena, distribuendo il serpente contagioso ai vagabondi, mendicanti e lebbrosi che trovava all’ombra del suo Orfeo nero. Un AIDS ubriaco di samba e feste sfrenate la fece lievitare come un palloncino scolorito, come un preservativo gonfiato dagli sbuffi del suo ano compassionevole. Il suo ano filantropo, che faceva da eco ai tamburelli e ai timbales nell’ardore della frocite sieropositiva. Una festa, oppure una escola de samba per morire tra le paillettes, persa nel fottere delle favelas, nel profumo africano libero, bagnando di ambra nera la rúa, la avenida Atlántida, la calle de Río, sempre disposta a peccare e pagare con la carne i piaceri del suo delirio.

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Folle affanno, cronache del contagio

Pedro Lembel

Edicola Edizioni – 2022

Traduzione di Silvia Falorni

18 euro

224 pp.

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