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Pierre Loti anteprima. Le tre dame della Kasbah. Racconto orientale

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Proponiamo in anteprima questo Le tre dame della Kasbah. Racconto orientale di Pierre Loti, edito da Ibis con la traduzione di Cristina Costantini, affidandone la presentazione alle parole della prefatrice Maria Tatsos

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Viaggiatore instancabile, scrittore prolifico, ufficiale di marina. Gentiluomo amante dei gatti e dandy stravagante, esibizionista innamorato dei travestimenti, che si divertiva a posare abbigliato da arabo col turbante e da turco con il fez. Pierre Loti (1850-1923), nom de plume di Louis Marie Julien Viaud, originario di Rochefort sulla costa atlantica francese, a cent’anni dalla sua morte conserva un fascino misterioso ed enigmatico. “Pierre le fou” (Pierre il pazzo), come l’aveva soprannominato l’attrice Sarah Bernhardt, ha goduto di ammiratori illustri: Henry James, Joseph Conrad, Marcel Proust. Cantore di amori esotici, ha spesso attinto alle sue esperienze personali di viaggio e di vita per ammaliare i lettori. Anche Le tre dame della Kasbah. Racconto orientale, pubblicato per la prima volta nel 1882 all’interno della raccolta Fleurs d’ennui, poi ripro- 10 posto dal 1884 come testo a sé stante, trae origine da un’esperienza personale dell’autore. Durante il suo secondo viaggio in Algeria, nel 1880, tre donne del luogo salgono a bordo della nave. È possibile immaginare la loro professione, considerato che siamo nella seconda metà dell’Ottocento in un Paese islamico, dove il controllo sociale era fortissimo e le donne perbene si allontavano di casa soltanto una volta alla settimana per recarsi ai bagni pubblici (hammam). Saranno queste tre donne, incontrate per caso, a ispirare a Loti le figure della madre vedova Khadija con le figlie Fatmah e Fizah che vivono rinchiuse in un’abitazione della kasbah di Algeri, dove ricevono la clientela che consente loro di sopravvivere senza un uomo che si occupi di loro.

La storia si svolge nello spazio di una notte, in una domenica di libera uscita. Sei marinai europei, tre bretoni e tre baschi, scendono dalla nave a caccia di distrazioni. Sono già alticci quando, allontanandosi dal porto, si perdono fra le anguste viuzze della città vecchia che spaventa per la sua alterità e al contempo ammalia. Voci e silenzi, profumi di fiori e di spezie, esaltati dalla calura, stordiscono il visitatore europeo, gli fanno perdere i punti di riferimento e lo risucchiano come in un labirinto. È in balia di queste sensazioni che avviene l’incontro fatale al centro del racconto. Scorgono da un’apertura nelle alte mura, che cingono le case proteggendo le donne da sguardi indiscreti, un volto femminile imbellettato e incorniciato di gioielli e di zagare. È Fatmah. Si apre una trattativa ma solo i tre baschi decidono di restare per concedersi una notte d’amore. I bretoni, superstiziosi, decidono di andarsene: quella ragazza assomiglia troppo a una Madonna dei loro ricordi d’infanzia. Fra fumi dell’alcol e spacconerie, i sei compagni si ritroveranno sulla nave e pagheranno il prezzo della loro notte brava Per il lettore di oggi, l’immagine di Khadija, Fatmah e Fizah, rinchiuse nella loro casa logorata dal tempo, rappresenta la parte più disturbante della narrazione. La descrizione di Loti è così accurata che quasi possiamo vedere le tre donne innanzi ai nostri occhi mentre cercano, annoiate, di ingannare il tempo, intente a bistrare i loro occhi scuri per accentuarne la sensualità o a fumare il narghilè. Sembrano uccelli dalle ali tarpate confinati in una gabbia, accecate dal nitore dei muri della loro prigione, ricoperte di monili e di morbide vesti dorate. Parlano poco mentre attendono che il loro tedio venga spezzato dall’irruzione di una figura maschile. La prostituzione è da sempre esistita in ogni angolo del globo, ma colpisce l’annullamento di qualsiasi dimensione sociale che vivono queste donne, l’abbruttimento legato alla solitudine e all’isolamento.

Maria Tatsos

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In lontananza il mar Mediterraneo, liscio come una grande tovaglia azzurra e, nella direzione di Sidi Ferruch, una distesa di montagne di colore rosso, dove i campi di aloe disegnavano striature bluastre. Molti anni prima il marito di Khadija, Cheikh-ben-Abdallah, era stato ucciso nel corso di un’insurrezione contro i francesi, così Fizah e Fatmah-ben-Cheikh erano rimaste orfane.

Nonostante gli antichi gioielli che indossavano, ultimi fasti delle ricchezze della madre, era facile intuire che erano povere.

Una sera sei marinai camminavano sottobraccio per la città di Algeri. Erano talmente ubriachi che la via Bâb-Azoun non sembrava abbastanza larga da permettere il loro passaggio e, camminando di traverso, cantavano una monotona canzone senza senso:

Bel baleniere il mare vuoi solcare?

Bel baleniere

Bel baleniere

Il loro bastimento aveva attraccato in porto quello stesso giorno e all’arrivo avevano ricevuto la paga di sei mesi. L’avevano spesa tutta e la sera avevano le tasche ormai quasi vuote. Per prima cosa avevano affittato due vetture per pavoneggiarsi nei quartieri nuovi costruiti dai cristiani con la rosa all’occhiello. Poi avevano fatto il giro delle osterie bevendo sempre i liquori più costosi senza badare a spese. Avevano commesso ogni genere di sciocchezza e di monelleria, avevano dato la caccia ai gatti, rotto dei bicchieri, baciato dei cani, davanti alle porte dei locali avevano provocato assembramenti di persone attonite; venivano derubati di continuo, mentre diventavano sempre più ubriachi, erano stati visti ovunque fare un baccano d’inferno, battevano sulla pancia vuota degli arabi, che li guardavano con aria severa, oppure li tiravano per il cappuccio: cervelli di bambini di otto o dieci anni che comandavano corpi di uomini. Avevano elargito monetine a una miriade di piccoli esseri insolenti e cenciosi, sudici nell’aspetto e nelle intenzioni, che si erano appiccicati loro come a una preda, offrendosi di accendere loro i sigari o di lucidare le loro scarpe con spazzole rubate. Avevano dato una sonora lezione a un ebreo che aveva proposto loro le sue due giovanissime figlie e poi un luigi a un altro ebreo che li aveva condotti in un lupanare dove delle donne maltesi avevano continuato a spennarli.

La loro ubriachezza non era poi troppo ripugnante perché quei marinai erano giovani e sani. Se ne andavano in giro con le loro belle facce tonde che assumevano espressioni buffe… Condividevano con i passanti le loro inaudite riflessioni. Avevano vagabondato parecchio per la città e non avevano idea di dove stessero andando in quel momento.

Scendeva la sera. Era una domenica di maggio e l’aria era calda. Nei grandi viali dritti che i cristiani hanno costruito (in modo che Algeri diventasse uguale alle loro città in Europa) si affollava ogni genere di persone: francesi, arabi, ebrei, italiani, ebrei dalla blusa dorata, donne arabe con il velo bianco, beduini con il burnus, spahi, zuavi, inglesi tisici che portavano caschi di sughero legati sotto il mento con un telo bianco; e l’intera schiera dei bottegai – che è sempre uguale in ogni Paese – vestita a festa: uomini col cilindro nero, donne con grandi fiori finti su pettinature ordinarie, e poi cavalli, carrozze, gente, tanta gente, gente a piedi, e gente a cavallo, beduini e ancora beduini. Nelle botteghe dei mercanti cominciavano ad accendersi le mille fiammelle delle lampade a gas che facevano balenare agli occhi dei passanti mucchi di oggetti affastellati. Accanto ai negozi dalle grandi vetrine, dove si vendevano le merci arrivate da Parigi, c’erano i caffè arabi, dove uomini col burnus fumavano placidamente lo chibouque seduti sui divani mentre ascoltavano storie di un altro mondo raccontate da un cantastorie nero.

Le osterie traboccavano di persone: ampie e profonde taverne con i barili allineati dove i marinai dei mercantili, maltesi dal grande cappello di feltro ripiegato, sempre pronti a tirare fuori il coltello, bevevano in compagnia di ragazze brune. Dalle botteghe uscivano zaffate di aria calda; nelle osterie regnava l’odore dell’anice, dell’assenzio e dell’acquavite, gli uomini col burnus avevano l’odore del beduino e rilasciavano nell’aria il fumo del tabacco algerino, profumi d’Africa… E i bagni turchi esalavano il loro tipico odore di sudore e di acqua calda. – L’intera città trasudava l’immoralità, la depravazione, l’ubriachezza della sua domenica. Groviglio di due o tre popoli che mischiavano la propria lussuria, Algeri aveva la cinica indecenza dei luoghi che hanno perso le proprie caratteristiche nazionali per prostituirsi, per aprirsi a tutti. E, sopra tutto questo, in alto, il cielo era blu e, sopra questa Babele, file di belle case ordinate davano l’idea di una Parigi molto calda.

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