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Queste Montagne bruciano. Intervista a David Joy

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Autore di diversi romanzi e racconti, nonché collaboratore di Time e di New York Times Magazine, David Joy ha pubblicato circa due anni fa negli Stati Uniti il bellissimo “Queste Montagne bruciano” (Jimenez Edizioni, 2022, pp. 263, € 19), riscuotendo un considerevole successo di pubblico e critica e aggiudicandosi il prestigioso Dashiell Hammet Crime, che ogni anno premia il miglior romanzo crime negli Stati Uniti e in Canada.

Da pochi mesi tradotto in italiano da Gianluca Testani, il libro è una rappresentazione nel contempo disperata e vitale, esilarante e feroce, di una realtà, quella delle montagne appalachiane, sottoposta ad un brutale processo di cambiamento e di perdita di identità, che, in qualche modo, può essere considerata assolutamente esplicativa anche di ciò che, più in generale, sta accadendo in quasi tutte le zone rurali del Paese, con un progressivo, inesorabile processo di disgregazione sociale che sta mettendo in serio pericolo la sopravvivenza di valori e tradizioni fino a pochi anni fa considerate quasi tetragone, oltre che figlie di una sedimentazione storica determinatasi nei secoli.

Abbiamo chiesto allo scrittore di Charlotte di raccontarci qualcosa sulla genesi e sulla “missione” di un’opera così potente e originale che, a detta di molti, può essere considerata degna di entrare a far parte nel novero di quelle opere che, al giorno d’oggi, meglio rappresentano la migliore tradizione del “Grande Romanzo Americano”. Ecco cosa ci ha raccontato.

Domenico Paris

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Dare un senso alla realtà, anche soltanto alla propria. I tre protagonisti di “Queste montagne bruciano”, benché molto diversi tra loro, sembrano accomunati da questa ineluttabile esigenza. Qual è secondo te il risultato che raggiungono alla fine delle loro personali peripezie?

Inizialmente l’idea era quella di far scorrere le vite di due personaggi parallele verso un’inevitabile intersezione. Quando i loro due mondi si sono finalmente scontrati, ho capito che quello era il “colpo di grazia” letteraria che stavo cercando. Ho scoperto invece molto presto che Denny Rattler e Raymond Mathis si sentivano entrambi come se stessero assistendo alla fine del mondo. Per Raymond questa presa di coscienza si è determinata con la perdita di sua moglie e di suo figlio e constatando come l’ultima parte della sua comunità di appartenenza e della sua cultura d’origine stessero per essere definitivamente spazzate via dal nuovo tipo di paesaggio urbano e sociale che si stava affermando. Per Denny Rattler, per molti versi è stato il contrario: lui stava osservando una specie di “resurrezione” culturale sentendosi in imbarazzo per le sue origini e per il suo personale background. A causa della sua tossicodipendenza, non si sentiva in grado di far parte di questa “risurrezione”. Sentiva di essere stato lasciato indietro.

Ma, per molti versi, entrambi i personaggi hanno modi di vedere la vita molto simili: in entrambi, infatti, si avverte un senso di ineluttabilità nei confronti del destino. Entrambi si sentono come se potessero vedere “la fine della strada” e in effetti è esattamente dove entrambi vanno a finire.

Nel tuo libro sembra giocare un ruolo fondamentale la contea di Jackson, che non si limita soltanto ad essere il contesto geografico e sociale in cui le vicende raccontate accadono, ma si trasforma essa stessa in una sorta di personaggio. In che modo hai approcciato alla sua descrizione e quanto hai dovuto plasmarla rispetto a quello che avevi in mente quando hai iniziato a scrivere il romanzo?

L’ho detto molto spesso in passato, ma è la pura verità e non saprei cos’altro aggiungere. Sono una dodicesima generazione della Carolina del Nord. Appartengo a questa terra da una vita intera. Ho trascorso la maggior parte del mio tempo sulle sue montagne. Scrivo in modo molto specifico sulla Contea di Jackson, che è dove vivo. È proprio partendo da essa che nascono le mie storie. Quando vedo un’immagine, tendo a sapere dove sono fisicamente i personaggi, a volte perfino l’albero sotto cui si trovano. I luoghi di cui scrivo esistono. Puoi andarci. I cimiteri, i ristoranti, tutto. Allo stesso modo, quando sento la voci di un personaggio, c’è un accento particolare a caratterizzarle. Esprimono le cose in un modo loro, non imitabile. È perché quelle sono le voci da cui sono circondato. Non riesco proprio a pensare in altri termini.

Ci sono scrittori che sono in grado di catturare luoghi diversi, come ad esempio Ace Atkins. Riesce a dare uno sguardo meraviglioso alla realtà del Mississippi, ma poi leggi la serie di Spenser di Robert Parker ambientata a Boston e chiunque a Boston che casttura lo spirito di quella città nello stesso, felicissimo modo. Con ogni probabilità, la questione si riduce al fatto che è semplicemente più intelligente di me. Non lo so. Io conosco bene soltanto un posto e sento che è abbastanza per me. Avverto che tutto ciò che metto su carta, passa proprio da qui, qualsiasi possa essere la storia che voglio raccontare. È come dice Eudora Welty: “Un luogo ben compreso ci aiuta a capire meglio tutti i luoghi”. Non ho bisogno di nient’altro.

Le nostre vite sono la somma di tutte le scelte che abbiamo fatto. Cosa sarebbe il mondo senza le conseguenze?”. Sei davvero convinto che la possibilità di autodeterminarsi alla fine la vinca sul destino di ognuno di noi? E perché?

Gran parte del mio lavoro è sempre consistito in questo provare a cercare un punto di equilibrio tra speranza e destino. Chi vogliamo diventare? Ed è una scelta che ci è concessa o è qualcosa su cui abbiamo pochissimo controllo? Per la maggior parte dei personaggi di cui scrivo direi che le scelte sono limitate. Spesso sono nati in particolari condizioni e quelle particolari condizioni tendono a limitarne in modo sostanziale le possibilità di vivere in modo differente. Dove andranno a finire è qualcosa che spesso sembra predeterminato e taglia fuori la loro capacità di incidere sul proprio destino. Ma questo non vuol dire che manchino completamente di capacità di saper agire secondo una propria coscienza. Gli capita di trovarsi davanti ad alcuni bivi esistenziali e devono dunque prendere decisioni sulla strada da percorrere. Una dei fattori fondamentali, tuttavia, ed è questa una questione legata a condizioni privilegiate rispetto ad altre, è che quando alcune persone prendono decisioni sbagliate, quando prendono la strada sbagliata, sono in grado di tornare sui propri passi e andare dall’altra parte. Per i personaggi di cui scrivo, questa raramente si rivela un’opzione praticabile. È raro che si possa tornare indietro. Una volta che hai preso una decisione, ne accetti per sempre le conseguenze. La posta in gioco è sempre alta per loro.

Il personaggio che più mi ha affascinato del libro è senza dubbio Raymond Mathis, un padre disperato ed eroico che, secondo me, può essere già considerato come un personaggio degno di essere annoverato tra gli immortali della recente letteratura americana contemporanea. Come è nato e quanto hai faticato per cesellarlo in ogni sua singola sfumatura prima di presentarlo ai tuoi lettori? E soprattutto: credi che la sua battaglia personale sia sostenibile nella vita reale?

Di tanto in tanto ci sono elementi di verità che ispirano e modellano la fiction letteraria e questo è certamente il caso di Raymond Mathis. Conoscevo da molto tempo un uomo, un padre il cui figlio era fortemente dipendente dalla metanfetamina. Quest’uomo una volta mi raccontò una storia su una telefonata che diceva che suo figlio doveva diecimila dollari e che, se non li avesse pagati, sarebbe stato ucciso. Mi ha detto che, per salvarlo, per “riscattarne” la vita, ha guidato attraverso le montagne con diecimila dollari in contanti poggiati sul sedile del passeggero e una pistola in grembo. Quando ho sentito quella storia, ricordo solo di aver pensato che catturava pienamente il trasporto emotivo assoluto con il quale un padre riuscisse ad amare il proprio figlio anche nel momento più buio della sua esistenza. Ovviamente è così che inizia questa storia, ma penso che ciò che mi interessava di più era che avevo scritto molto sulla dipendenza dal punto di vista del tossicodipendente. La prospettiva del tossicodipendente è qualcosa che capisco. Ma cercare di immaginare le vite colpite da quella dipendenza per me era un terreno nuovo da esplorare.

Il lavoro di introspezione che hai condotto su molti dei personaggi dell’opera è mirabile, ma quello dedicato a Denny Rattler ha del prodigioso. La terribile discesa nella sua psiche di giovane tossico senza speranza atterrisce dall’inizio alla fine della narrazione. Hai avuto modo di basarti su qualche esperienza vissuta per poter tratteggiare un ritratto così sconvolgente o Denny è frutto solo della tua fantasia? E come sei riuscito a mantenere un distacco emotivo accettabile man mano che raccontavi la sua storia?

Come ho detto, la prospettiva del tossicodipendente è qualcosa che penso di capire bene, perché sono stato a contatto con i tossicodipendenti per tutta la mia vita. So cosa passa per la loro testa perché mi sono seduto lì e ho imparato ad ascoltarli. Capisco le loro motivazioni nei confronti dell’abuso. Con una droga come l’eroina, poi, puoi praticamente moltiplicare tutto questo dieci volte, cento volte. Una droga del genere ti rapisce completamente e la probabilità di cambiare rotta è spesso ridotta a zero. Non riesco a contare il numero di amici intimi che ho perso per colpa di un’overdose. Ci ho perso un cugino lo scorso capodanno, tanto per dire. Era a una festa ed è andato in macchina a sballarsi. E non è più tornato. Lo hanno trovato morto lì dentro. Penso che qualcosa che ho sempre cercato di fare nel mio lavoro, specialmente nei primi romanzi come Where All Light Tends To Go e The Weight Of This World, sia stato umanizzare la figura del tossicodipendente. Abbiamo una tendenza così orribile a disumanizzare quelle persone, a deprivarle della loro umanità… Trovo sia una tragedia assoluta. Per questo, invece, mi sforzo sempre di restituirla al lettore. Cerco sempre di arrivare al cuore di chi sono veramente queste persone e di far capire che non sono molto diverse da chiunque altro.

I legami, la famiglia, il senso di continuità: di fronte al tracollo individuale e individualista che distrugge al giorno d’oggi le singole esistenze e la collettività, possono davvero continuare a costituire un efficace antidoto come sembra emergere dalle tue pagine? O, onestamente, è solo “letteratura”?

Non riesco a ricordare il romanziere che lo ha detto, ma ricordo di aver letto una volta che “il ruolo dell’artista non è quello di rispondere alla domanda, ma piuttosto di esporre chiaramente il problema”. La disintegrazione della famiglia, della comunità e del patrimonio umano è la realtà che stiamo vivendo attualmente nella contea di Jackson luogo. Per molto tempo, ho sostenuto che siamo a una generazione dall’estinzione culturale completa. E alla fine non è solo una realtà che appartiene alla zona degli Appalachi, ma riguarda un po’ tutte le realtà rurali d’America. Questo non è un problema nuovo, ma è il risultato del mettere sempre davanti le ragioni del profitto rispetto a quelle dell’uomo da 250 anni a questa parte. A ben considerare, la storia di tutti i luoghi è una storia di spostamento, migrazione, e in questo momento, nel bene e nel male, è la gente di montagna che sta vivendo questa fase.

Nonostante un retroterra che non può non lasciar pensare a certa gloriosa tradizione “noir”, il tuo è un romanzo che, a ben leggere, supera i confini del genere per entrare, secondo me di diritto, nella tradizione senza genere del “Grande Romanzo Americano”. Hai puntato immediatamente ad ottenere questo tipo di risultato o no? E c’è stata qualche fonte di ispirazione, qualche autore, che hai tenuto particolarmente presente mentre lo scrivevi?

Sai, penso che abbiamo la cattiva abitudine, in particolare qui in America, di classificare la letteratura in categorie, e parte di questa abitudine, ovviamente, si riduce ad un discorso legato al puro marketing. Definisci un libro un “mistery” ed è lì che lo vai a collocare, sullo scaffale dedicato. A livello superficiale, la cosa avrebbe anche senso. Ma il problema arriva quando diamo un valore a un genere piuttosto che a un altro e sosteniamo che certa “letteratura” abbia più valore rispetto a quella considerata “di genere”, o quando ci convinciamo che un certo romanzo, sia esso di fantasy o di fantascienza o un crime novel, non possa assurgere allo status “letterario”. Pensa a una scrittrice come Ursula K. Le Guin. È stata una delle narratrici americane più importanti del secolo scorso, ma la sua opera era legata quasi esclusivamente a una dimensione speculativa o di fantascienza. Per questo motivo, non viene menzionata nelle stesse conversazioni nelle quali si parla invece di scrittori presuntamente più “letterari”. Lo stesso vale per uno come Donald Ray Pollock. Penso che Don sia uno degli scrittori più talentuosi d’America in questo momento, ma il suo lavoro è raramente preso in considerazione quando si tira fuori il discorso sul “The Great American Novel“. The Heavenly Table (da noi tradotto come “La Tavola del Paradiso”, Elliot Edizioni, 2017), secondo me, è uno dei grandi romanzi americani degli ultimi decenni. Penso che forse il modo di vedere le cose in questo modo, dello star lì sempre a rimarcare i presunti limiti del “genere”, stia mutando, ma il processo di cambiamento è stato lento e non sia ancora finito.

Per quanto riguarda il mio lavoro, penso di impegnarmi allo spasimo per trovare una giusta sonorità della frase. Sono ossessionato dal discorso della prosodia narrativa e dal modo in cui le parole creano certi effetti fonici accavallandosi l’una sull’altra. Tutte queste cose, per loro stessa natura, costituiscono un esempio di ricercatezza letteraria. Io rimango uno scrittore che è più influenzato dalla poesia che dalla narrativa. Alla fine di una giornata di lavoro, non voglio solo raccontare una storia. Voglio che abbia una risonanza, anche stilistica, più profonda possibile.

Consideri questo libro come il tuo lavoro più importante scritto fino ad ora o c’è qualche altro titolo, magari non ancora tradotto in italiano, che pensi ti rappresenti di più come scrittore?

Penso che Queste montagne bruciano sia stato un libro importante per me. Vuoi sempre che un libro e una storia che racconti siano avvincenti, ma ciò non ne determina necessariamente il valore e l’importanza. Questo libro sembrava fin dall’inizio qualcosa di importante, invece. Raccontava qualcosa che meritava di essere conosciuta, e, per questo motivo, mi è sembrato differente fin dall’inizio. Ma per quanto riguarda i titoli precedenti, ci tengo a sottolineare come tutti, per ragioni diverse, abbiano rappresentato molto per me. Da Where All Light Tends To Go (che presto verrà tradotto e pubblicato qui in Italia, sempre da Jimenez Edizioni) per esempio, è stato tratto un film con grandi nomi come Robin Wright e Billy Bob Thornton. Oppure, The Line That Held Us è stato il libro che mi ha consentito di riscuotere un grande successo in Francia. Se devo essere onesto, poi, considero ancora The Weight of this World un romanzo che spicca davvero nella mia produzione e penso che questo sia forse dovuto al fatto che non ha riscosso l’accoglienza che hanno avuto gli altri, perlomeno negli Stati Uniti. È una specie di “figlio di mezzo” non ancora giustamente apprezzato. Ma ricordo molto bene dove volevo andare a parare quando l’ho scritto e credo che fosse un’opera di caratterizzata da una certa ambizione, soprattutto considerando il fatto che è stato il mio secondo romanzo. Mi piace parecchio quel libro e penso che racchiuda molte delle cose che so fare bene come scrittore.

In Italia “Queste montagne bruciano” ha riscosso un successo di critica unanime e ha conquistato un buon numero di lettori. Potresti anticiparci quali sono i tuoi progetti narrativi futuri? Ormai sono in tanti ad aspettare un tuo nuovo lavoro.

Di recente ho finito un romanzo intitolato Those we thought we knew, che dovrebbe uscire qui negli Stati Uniti la prossima estate. Questo libro mi ha impegnato un bel po’ più del normale. Storicamente, sono stato uno scrittore che ne ha tirato fuori uno ogni due anni. Per scrivere questo, invece, ce ne sono voluti cinque. In parte, ovviamente, è dipeso del fatto che lo stavo scrivendo in un periodo caratterizzato da un tremendo disordine sociale. Un periodo difficile per vivere, molto meno per scrivere, va da sé. Però penso che la cosa più importante, è che mentre lo buttavo giù stavo cercando di allargare i confini rispetto a ciò che avevo fatto fino a quel momento. Questa, perlomeno, è la speranza, la speranza che il mio modo di scrivere continui a crescere. Alla fine, ogni libro è diverso da un altro e ci vuole quello che ci vuole prima che venga fuori bene come lo abbiamo immaginato. Il tempo che uno ci impiega non conta, rispetto al risultato finale. Prego ogni notte di aver capito bene come si fa.

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