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Remo Rapino. Fubbàll

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Il calcio, se qualcosa è, deve essere un boato di speranza per i poveri cristi”. Parola di Baffino, il numero 10 della squadra di Remo Rapino, autore di “Fubbàll” (minimum fax, 2023). Decimo racconto di dodici: undici più uno, l’allenatore.

Già, perché la raccolta dello scrittore abruzzese – premio Campiello nel 2020 con “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” (sempre minimum) – è una squadra di calcio che comincia col portiere, il numero 1, e termina con l’11, l’ala sinistra. A questi, poi, va aggiunto il mister, che più che un allenatore è un’allegoria del primo Novecento italiano, tale Oliviero: calciatore “regionale” con più buchi allo stomaco che partite, partigiano aggregato alla Brigata Maiella durante la guerra e, negli anni della ricostruzione, allenatore quasi per caso, persino con qualche soddisfazione.

D’altronde questo è “Fubbàll”, com’è nomato il calcio dalle parti dell’autore, lancianese doc: dodici confessioni che attraverso il pallone vogliono dire la vita. Un poco vere, ispirate a calciatori strambi in grado di sfatare il cliché dell’atleta spersonalizzato e gretto, e un poco farlocche, sulla scorta dei grandi maestri sudamericani – e qui tutti dicono Soriano, e va bene, ma c’è anche il Galeano di “Splendori e miserie del gioco del calcio”, nonché un pizzico di Valdano, l’attaccante filosofo campione del mondo con l’Argentina nel 1986 e autore di validissimi racconti.

È il caso di Berto Dylan, il 7 della squadra di Rapino, quello a cui “piaceva da matti il calcio” ma non gli piaceva fare il calciatore. Poeta, prima ancora che fantasista dall’irridente dribbling, fan di Piero Ciampi e conterraneo di Pasolini. Proprio come fu Ezio Vendrame, l’ala destra che si nasconde dietro questo racconto così riuscito. Un irregolare del pallone che qualcuno disse più forte del pampero argentino Mario Kempes – “ma io non avrei mai giocato per un generale” – e che, si racconta, gioiva di più quando un allenatore lo sbatteva in tribuna: finì davvero la vita in tribuna, a comporre versi, era il suo destino – “scrivo di alberi di mele marce, e mi alleno a far finta di niente”.

Calciatori “sfasulati”, anche meno lirici, meno nobili; più polverosi, disillusi, stanchi. Come il numero 2 Glauco, schierato nell’estinto ruolo di “terzino marcatore” e incaricato anzitutto di menare; o come il 3, Osso Nilton, condannato a non dover superare la linea di centrocampo e forse destinato a una grande carriera se il ginocchio non avesse fatto crack – e a cui ancora brucia il fatto di non aver giocato da numero 11. Oppure Treccani, com’è il soprannome del numero 4, libero intellettuale che recitava Shakespeare ai compagni di squadra del Palermo prima di una finale di Coppa Italia persa con la Juve – accadde davvero, e “quella sconfitta fu la mia ultima vittoria”.

Il pallone, più che il calcio. Le storie sotto la Storia: l’umanità nuda intravista tra finzione e verità, proprio come si fa al bar del paese, raccontando e ingigantendo all’infinito, se necessario persino litigando, urlando forte. A questi dodici, poi, si aggiunge “Valdés”, un racconto pubblicato a parte da Tetra, sorta di “bonus track” della raccolta targata minimum fax in cui le polveri non sono quelle dei campi italiani ma del Cile della caduta di Allende: polveri infuocate più che pallonare, perché questo è soprattutto un brano politico. Lussureggiante nella prosa non meno di altri contenuti in “Fubbàll”, parimenti poetico e vieppiù debordante ma politico, irrevocabilmente incentrato su una generazione di “niños” cileni a cui la Storia deve ancora molto.

E allora, cosa resta? Resta quella sfera rotonda con le cuciture – negli anni Settanta ancora le aveva – che balla sulla linea di fondo davanti agli occhi immaginifici di un bambino, come fu per Milo, il portiere anarchico che andava al campo sportivo col padre e lo vedeva urlare insulti da dietro la porta. Sceglierà quel ruolo senza sognare mai di diventare un campione, piuttosto per soddisfare un bisogno di giustizia: “vendicare tutti i portieri del mondo”. Perché ha ragione Baffino, quello col tacco alla Socrates che sfanga la Serie C pugliese: “alla fine di tutto, essere campioni non è che un dettaglio”.

Alessandro Galano

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