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Roberto Ottonelli. Il dolce sorriso della morte

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Ho conosciuto ed apprezzato Roberto Ottonelli con il suo precedente lavoro “Credi davvero (che sia sincero)” Ed. Bertoni, romanzo cronistoria di un femminicidio realmente accaduto che, partito in sordina, ha poi conseguito un buon riscontro di pubblico, diventando fra l’altro uno spettacolo teatrale e fonte di ispirazione per la nascita dell’Associazione “Difesa donne, noi ci siamo”, di cui l’autore è fondatore e vicepresidente.

Un brav’uomo Ottonelli, serio e impegnato socialmente. Ma anche e soprattutto un ottimo scrittore, che ama nelle sue storie sviscerare la pancia del Male, non avendo paura di inzupparci la testa, il cuore e le dita.

Atteso alla prova del nove, dopo il buon risultato precedente, non delude le aspettative con questo Il dolce sorriso della morte, che pur non potendo contare sull’effetto leva del coinvolgimento emotivo scaturito dall’etichetta “tratto da una storia vera”, risulta essere un’opera di buona brillantezza all’interno dell’oceano noir della letteratura.

E prendere a pugni un uomo, solo perché è stato un po’ scortese, sapendo che quel che brucia non sono le offese, cantava il buon Battisti. Lì era poesia, qui un po’ meno.

La storia è ambientata in una Milano periferica, afosa e appiccicosa, scorbutica e scostante, dove l’ansia del traffico e della mancanza di parcheggi basta già da sola a far azzerare il livello di tolleranza verso il prossimo.

Marco Bordoni è un consulente finanziario, apparentemente rassegnato ad una vita senza vita, ad un lavoro privo di stimoli, a non meritare una relazione amorosa, a non avere amici. Un uomo che non ha alcuna voglia, prospettiva, ambizione.

La cui rassegnazione lo porta a reprimere qualsiasi forma di desiderio.

Per usare un termine odioso, molto in voga ai giorni nostri, Marco è lo sfigato per antonomasia. Ma dietro alla sua apparenza di docile sottomissione, che lo rende invisibile alle attenzioni di qualsiasi essere vivente, egli nasconde un dolore represso, figlio di abusi e di percosse provenienti da quel tipo di passato, chenon passerà mai.

Una sete di vendetta, che prima o poi troverà il modo di dissetarsi.

Bordoni in realtà non è solo, magari lo fosse.

Aveva ragione mia madre. Lo diceva sempre. “Stai attento alle donne, dammi retta, sanno come farti perdere la testa e rovinarti, non ci cascare, figlio mio”. Mi metteva sempre in guardia dai pericoli, senza i suoi consigli sarebbe mancata una parte di me.

La parte mancante di Marco è la persona con la quale convive, l’amata e odiata madre.

Il killer dall’anima inamidata, che usa le mani del figlio per dare sfogo ai propri sensi di colpa, le proprie insicurezze, la totale assenza di qualsivoglia forma di coraggio, nascosta dietro ad un insano senso di protezione.

Ottonelli tratteggia con indubbia maestria questo rapporto simbiotico e patologico, che mi ha ricordato quello tra Norman Bates e la mamma, nel celebre Psyco. E poco importa che la signora Bates fosse morta stecchita in uno stato mummificato, perché la signora Bordoni appare sì ancora in vita, ma in via di rapida mummificazione.

I tormenti deflagrano, il protagonista inizia ad uccidere, lasciandosi dietro una scia di atti raccapriccianti, causati da quelli che la “normalità” definirebbe, futili motivi.

Tornando a Psyco, ma nella versione American, di Breat Easton Ellis, il nostro Bordoni si trasforma nell’alter ego di Patrick Bateman, guarda caso anch’egli consulente finanziario, categoria che, dopo aver letto anche questo libro, sorveglierò con una certa circospezione e mi guarderò bene dal contraddire.

Se Bateman uccide per noia chi cerca di scalfire la sua supremazia fisica e di prestigio, anche solo mostrandogli un biglietto da visita più figo del suo, Bordoni uccide per frustrazione chi ne accentua le proprie debolezze. Due personaggi così antitetici in comune cosa possono avere? Una rabbia implacabile, che trova un sollievo passeggero solo tramite la morte. La droga della smania di controllo sulla vita altrui.

E il Bene in tutto questo? Dove sta?

Nella faccia e nelle vesti dell’ispettore capo Barzagli, che deve fare i conti, oltre che con le azioni scellerate dell’ineffabile killer della porta accanto, anche con i propri demoni, presenti sotto forma di ossessione e terrore verso il fallimento.

E nella grazia e nel corpo morbido di Paola, una collega di lavoro di Bordoni, che fornisce al nostro “mostro” la prima e forse unica illusione positiva della sua triste vita: la speranza nell’amore. Riuscirà, salvando se stessa, a salvarlo?

Il romanzo risulta disturbante. Leggendolo, si percepisce una sensazione di cupa claustrofobia, la stessa che sente il protagonista. Ma anche l’istinto consolatorio di chi avverte che la storia non potrebbe andare che così. Che le vicende succedono perché devono, quasi azzerando la libertà di scelta e di conseguenza il senso di colpa.

La particolarità di Ottonelli, che personalmente apprezzo, è che non si ferma mai in superficie. Prima ho utilizzato il termine “mostro”, ben sapendo di non rendergli merito.

In realtà l’autore non vede mai mostri fini a se stessi, nati dal nulla. Vede persone.

Che per una serie incontrollabile di cause, unite forse ad una predisposizione genetica, vengono portati a diventare chi sono, non ad esserlo a prescindere.

Siamo tutti, chi più e chi meno, spugne che nella loro esistenza rilasciano quanto hanno assorbito, a volte amplificandolo all’ennesima potenza.

Si era trattato di null’altro che di un film, di quelli che si vedono in televisione, non avevo cambiato canale e nessuno mi aveva messo la mano davanti agli occhi per proteggere la mia innocenza. La mia innocenza era stata rubata, defraudata da calci, pugni, schiaffi, dal sangue, il mio sangue.

Non oso dire che l’autore empatizzi con il tormento e le paranoie, ma che gli conceda, se non delle giustificazioni, almeno delle spiegazioni. Egli instilla il dubbio che chiunque di noi, nelle condizioni giuste e con una storia sbagliata alle spalle, potrebbe diventare il Bordoni di turno. Percepire quei futili motivi di cui sopra come ferite non rimarginabili.

E’ come se l’autore chiedesse perdono a nome del Male.

Dal punto di vista stilistico, Ottonelli snocciola una scrittura snella e godibile, semplice e d’impatto. Le pause e le improvvise accelerazioni, i dialoghi ripidi, la capacità di creare un crescendo incalzante sono armi che fanno parte del suo arsenale e ne fa sfoggio per rendere il prodotto molto attraente per gli amanti (e sono tanti) del genere.

Con la chicca di un finale, che a dispetto di eventi sempre attesi, spiazza in modo piacevole. O disturbante?

Prova superata.

Paolo Raimondi

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