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Sara Bilotti anteprima. Eden

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In libreria per HarperCollins è appena arrivato Eden, il nuovo romanzo di Sara Bilotti. Studiosa di linguistica e filologia esordisce con la raccolta di racconti Nella carne (Termidoro Edizioni 2012) per poi proseguire con la trilogia L’Oltraggio, La Colpa e Il Perdono (Einaudi Stile Libero 2015), I giorni dell’ombra (Mondadori 2018), oltre a partecipare con i suoi racconti a molteplici antologie, come Nessuna Più, quaranta storie quaranta scrittori contro il femminicidio (Elliot), e Una mano sul volto (Ad Est dell’Equatore), un progetto di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne.

Un thriller psicologico il cui fulcro è quel paradiso perduto di John Milton, l’Eden appunto, simboleggiato da meravigliose residenze “vissute” da un gruppo di amici, cultori ossessivi dell’arte e della bellezza ideale che ne scaturisce. Una lettera spiegazzata viene recapitata dopo il funerale di Silvia, presunta suicida, a Giulia, sua sorella. Dolore e incredulità la condurranno a Bologna alla ricerca di indizi. Indizi che squarceranno il velo di un’apparenza paradisiaca. L’illusione di una perfezione si sgretola su un passato traumatico irrisolto.

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L’ispettore era distratto, Giulia se ne accorse subito, anche se non poteva vederlo, al telefono. Doveva dare una ben misera importanza alla morte di Silvia, averla liquidata definitivamente come suicidio. Quante certezze. Quanta ingiustizia. Giulia non si sarebbe fatta intimorire dal suo tono annoiato. «Dunque» disse, «mi diceva di una lettera. Scusi, ma stamattina qui è un delirio.» Giulia sospirò. «Una lunga lettera, sì.» «Ha trovato dei dettagli che le sono sembrati interessanti?» «Vorrei farle qualche domanda.» «Lei a me?» L’ispettore scoppiò a ridere, una risata che si trasformò in una lunga tosse da tabagista. «Vediamo, mi dica.» «Avete interrogato Giordani e il suo amico? Avete perquisito la villa a Ozzano?» «Li abbiamo interrogati. Siamo stati alla villa ma non c’è stata nessuna perquisizione, non era necessaria. Come le ho già detto, sua sorella soffriva di una fo la raccolta di racconti e prrte depressione, era in cura da uno psichiatra, il quale ci ha riferito che aveva tentato più volte il suicidio.» Giulia restò in silenzio per qualche istante. Sapeva di dover parlare dei quadri. Della stanza chiusa. Ma sarebbe poi riuscita a risarcire Silvia, se la polizia fosse intervenuta immediatamente? Quale certezza poteva avere che i quadri ci fossero ancora? Non poteva rischiare che finisse tutto in una bolla di sapone. Doveva scoprire dell’altro, poi avrebbe parlato con la polizia.

«Dunque Gabriele Giordani non ha niente a che fare con la sua morte. Ne siete sicuri.» «Sì, signora Meyer.» «Mia sorella aveva un grande disagio nel rapportarsi con Giordani.» «Signora Meyer, abbiamo seguito le procedure. Non abbiamo trovato alcun indizio che possa mettere in dubbio l’ipotesi del suicidio. Restiamo nel campo dei fatti, non facciamoci prendere la mano dall’immaginazione.» Giulia chiuse un attimo gli occhi, ancora incerta sulla decisione che aveva preso. «Vi farò avere la lettera» disse infine, e riattaccò. Per strada, fece uno sforzo per impedirsi di correre. Davide doveva essere già a casa, e di sicuro aveva fame. L’urgenza del dovere, anche nei confronti di chi non sapeva che farsene, era un imperativo categorico. Ma si trattava di un dovere meccanico. Certe volte, Giulia pensava che le piante provassero più sensazioni di lei. Tutto le appariva estraneo, distante.

Provava spesso a tapparsi il naso e immergersi nelle conversazioni, nei corpi, negli abbracci, ma anche quando la finzione appariva più vera del vero, quella sensazione di essere un pezzo estraneo le restava attaccata alla gola come il retrogusto amaro di un tè troppo carico. Quando rientrò, Davide stava sbirciando nel frigorifero. «Non hai messo la pentola sul fuoco» gli disse, tirando fuori da una busta la misera spesa: una confezione di spaghetti e una lattina di pomodorini. «Preparo il sugo, non ci metto niente.»

Lui annuì e si sedette al tavolo, osservandola attentamente. Era impossibile non notare quel lento scrutinio, e Giulia divenne consapevole di ogni gesto, rallentandolo di conseguenza. «Da quanto tempo ti succede di nuovo?» chiese lui, sottintendendo il soggetto della frase. Giulia non si girò, restò immobile di fronte alla pentola colma di acqua, dentro la quale minuscole bollicine cominciavano già a salire in superficie. «Mi succede cosa?» «Non ti serve a niente questo dolore, Giulia. Non cambia le cose. Devi stare attenta quando cammini. Quando ti muovi. Il dottore mi ha detto che le persone depresse cadono e si fanno male spesso.» «Nessun dolore serve.» «Girati, per favore.» Obbedì. Guardò il volto calmo di Davide, i suoi occhi tristi, e li trovò ingiusti. Anche l’empatia può fare male. Certe condivisioni dovrebbero essere vietate. Ci doveva essere per forza qualcosa di suo a cui Davide non aveva accesso, ma chissà cos’era, e dove si trovava esattamente.

«La depressione si cura, Giulia.»

«Non ho quindici anni: so quando chiedere aiuto.» 

«A maggior ragione.»

«Come l’hai scoperto?»

«Il tappeto.»

Ma certo, il tappeto. Non era riuscita a pulirlo a dovere, e Davide era sempre troppo attento, troppo amorevole. Dicevano tutti che era un uomo mite, ma non era forse anche quella una forma di aggressività? Notare tutto. Sapere tutto. Sentire tutto. «Vado a Bologna» gli disse. Non era il momento giusto per farlo, e il tono brusco non era adeguato. Gli aveva scagliato addosso quella frase unicamente per punirlo. Davide non reagì subito. Girò gli occhi verso la pentola, l’acqua stava bollendo. «Motivo?» chiese poi, appoggiando i gomiti sul tavolo come se temesse di vacillare. «Un seminario.» «Ti sei tanto irritata quando il rettore al funerale ti ha invitata a Bologna, e adesso che fai? Cambi idea da un giorno all’altro? Voglio sapere il motivo vero.» «Se lo conosci perché me lo chiedi?» «Cosa ti salta in mente, eh? Vuoi metterti a fare Sherlock Holmes? Magari scoprirai che Silvia è stata uccisa, cosa che ritengo poco probabile, ma questo non servirà a riportarla in vita. Né a placare il tuo assurdo senso di colpa.» Giulia lo guardò a lungo, mal celando un disprezzo da letterata nei confronti di quell’osservazione troppo banale, poi tornò a occuparsi del pranzo. «Non è assurdo» mormorò, dandogli le spalle. «Tra le due, ero io quella forte. Avrei dovuto fare qualcosa. Avrei potuto. Non l’ho fatto.»

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