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Silvia Lumaca intervista SALVO SORCI E GIUSEPPE PIAMPIANO per “LA DANZA DEGLI SPECCHI” 

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CLOSE ENCOUNTERS – PALERMO

Salvo Sorci e Giuseppe Piampiano sono due registi di base a Palermo che con le associazioni Fante di Quadri e I Teatranti, coordinano e realizzano vari progetti artistici e di educazione e promozione sociale attraverso l’arte, il teatro e le arti visive in genere.

Collaborano attivamente da due anni e quest’estate hanno completato il loro primo cortometraggio che si appresta — speranzosamente — ad avere una distribuzione… in primis festivaliera, ma non solo: anche in sala, e in proiezioni aperte a un’audience meno specialistica, di gente comune, magari in proiezioni pubbliche… sempre più difficili da ottenere per la stragrande maggioranza degli autori che non rientrano nel pugno dei (soliti e) risicatissimi big.

Satisfiction ha patrocinato il progetto e io mi appresto a incontrare i due artisti.

Per limitazioni geografiche posso incontrarli solo virtualmente ma la chiacchierata si rivela pochissimo virtuale, e moltissimo carnale, o quantomeno carnosa… — in termini assolutamente metaforici e non alimentari — perché parliamo di tutto come vecchi amici, tanto che disbrogliarmi tra registrazioni e divagazioni varie è complicatissimo e questa intervista scritta finisce per essere una riduzione impietosa della realtà.

In ogni caso, ecco il resoconto del mio incontro (poco) virtuale con Giuseppe e Salvo, che mi parlano de “La danza degli specchi:” storia di Ester, che ha una diagnosi di prosopagnosia (una degenerazione neurologica che rende incapaci di riconoscere e memorizzare i volti altrui — e nei casi più gravi anche il proprio). 

Tramite il viaggio di Ester per poter tornare a “vedere”, gli autori indagano i temi dell’identità, della ricerca del sé, della cura e del trauma nel contesto familiare, con un metodo molto personale, che fa incontrare cinema tradizionale e cinema sperimentale.

Dicevate che state lavorando insieme su altri progetti, come nasce la vostra collaborazione?

Salvo: Con Giuseppe ci conosciamo da un paio d’anni, quando abbiamo iniziato a collaborare su vari progetti audiovisivi, e stiamo scrivendo una sceneggiatura di un lungo che, tra le varie cose… va avanti. — Del lungo, “Il ritorno”, si è appena completato il trattamento — 

Io mi occupo fondamentalmente di arte contemporanea, e come cinematografia il mio ambito è la video-art, quindi sono meno tecnico del mestiere rispetto a Giuseppe che ha frequentato una scuola di cinema ed è un regista e sceneggiatore a tutti gli effetti.

La collaborazione nasce insomma da un amore comune che è quello verso il cinema e le arti visive e ci unisce la voglia di provare a farlo in un modo inedito, che non sia nella direzione del “mostrare” ma più dello stimolare lo spettatore a porsi degli interrogativi, che è poi il linguaggio della video-arte. Quello che fa la video-arte è stimolare nello spettatore una reazione cognitiva che non coincida con l’essere spettatore e basta, col fruire semplicemente dell’opera. Nei progetti che stiamo elaborando con Giuseppe stiamo cercando di usare questo linguaggio, stiamo cercando di stimolare e far partecipare attivamente lo spettatore a un qualcosa che ai nostri occhi sembra interessante e che possa creare dibattito.

È vero, nel film si coglie come un gioco tra i diversi modi di essere cinema: sequenze che sono caratterizzate in primis dal sonoro, altre dal montaggio o dalla resa dei colori, ma anche una storia thriller — un giallo con elementi soprannaturali che vogliamo dipanare. Credete che la scelta di girare un cortometraggio vi abbia favorito in questo?

Giuseppe: Sì, in un cortometraggio devi concentrare tutto… con Salvo ragionavamo su quest’idea: le opere d’arte hanno un’immediatezza, una fruibilità immediata, proprio come il pensiero nel cervello umano: il pensiero è immediato. Abbiamo voluto parlare di una malattia come la prosopagnosia che è un disturbo terribile: è la mancanza d’identità. Si perde l’identità che è già angosciante di per sé, e grazie alla collaborazione con Salvo e gli artisti della Fante di Quadri abbiamo cercato di dare una visione di questo disturbo, che cosa passa nella testa di una persona che ha questa malattia? Il format del cortometraggio è soddisfacente per questo: per l’immediatezza, perché uno deve prendere delle decisioni subito, e c’è questa adrenalina che scorre sul set, bisogna subito pensare “così va bene, così non va bene, questa luce va così”, anche l’attore si trova in un certo senso più pressato ed è più portato a essere immediato.

La cosa bella è questa: con Salvo abbiamo preso un sacco di decisioni estemporanee, da un secondo all’altro, un minuto all’altro…

Quanto tempo ci avete messo a completarlo, considerando le varie fasi?

Salvo: Ecco, penso che io e Giuseppe potremmo scrivere in una serata dai tre ai cinque corti… per quanto ci immergiamo nella riflessione e nel dialogo, ed è una cosa che facciamo anche al telefono, le nostre telefonate non durano mai meno di un’ora e mezzo… perché credo ci sia proprio un’affinità elettiva: anche se abbiamo vissuti e formazione diametralmente opposti, toccano le stesse corde di violino e si emozionano e si entusiasmano per cose veramente molto similari… quindi il fatto di scriverlo è stato immediato, è stato qualcosa di molto rapido. Poi, per girarlo, i tempi tecnici sono stati di cinque giornate.

In questo momento — le riprese sono avvenute nell’agosto 2021 — girare in sicurezza, in luoghi dove occorrono autorizzazioni e una certa organizzazione è complicato… ci siamo specializzati nella sicurezza del cast e della troupe, e questo comportava diversi accorgimenti che hanno fatto sì che qualcosa che in passato magari avremmo girato in tre giorni, fosse diluito in cinque. Ma è stato comunque molto immediato, anche perché abbiamo avuto dei gran collaboratori: i ragazzi con cui lavoro sono tutti artisti, non abbiamo tecnici veri e propri: sono artisti che sanno fare questo mestiere — abbiamo tantissimo girato, sai quanto extra! perché mi piaceva vedere da ogni punto di vista di questi miei colleghi: il loro punto di vista dell’azione e della scena.

Mi piaceva molto questa cosa, quindi c’è anche una collaborazione artistica interna… poi con Giuseppe abbiamo fatto una cernita delle inquadrature migliori che poi abbiamo utilizzato. Ma anche questo è stato breve… di quelle cose che si fanno da sole.

Giuseppe: Sì, breve ma intenso! 

Effettivamente con Salvo c’è il connubio di due associazioni, io sono vicepresidente de I Teatranti, che è un gruppo capitanato da Antonella Rizzo, attrice (nel film interpreta la madre di Ester), e che nasce come gruppo teatrale. Perché lavoro anche nel teatro e scrivo delle sceneggiature teatrali. Il mio mentore è stato Domenico Saverni — sceneggiatore di vari Fantozzi, e di tantissimi cinepanettoni, ma anche aiuto regista di Brass e di Monicelli, sceneggiatore di “Io speriamo che me la cavo”… insomma, un nume della commedia italiana nelle sue varie metamorfosi — con cui sono tuttora in contatto e che mi dà una mano nel mio percorso di sceneggiatore, mentre da regista è già un bel po’ di anni che lavoro, fin dal primo cortometraggio “Un pesce spada è per sempre” che si trova su YouTube. Oltre agli artisti della Fante di Quadri, dobbiamo insomma ringraziare anche gli attori — di formazione teatrale — che devo dire hanno un po’ sudato per riuscire a interpretare i loro ruoli, tra cui la protagonista Ester (Laura Reale) perché volevamo che potesse trasmettere questa angoscia, questo non sense della malattia stessa.

Questa malattia stranissima di cui non avevo mai sentito parlare. Come vi è venuta un’idea così particolare?

Giuseppe: Io leggo tantissimo e mi ricordo di un libro di Oliver Sacks che ho letto tanti anni fa, “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”.

La prima volta che sono venuto a contatto con questa malattia è stato in quel testo, però poi mi sono accorto che nel mondo dello spettacolo molti attori e molti artisti soffrono di questo disturbo, tra cui il più noto è Brad Pitt. 

Salvo: Pitt ha rilasciato un’intervista in cui dice di aver difficoltà a riconoscere i volti di alcune persone. Specialmente quelle che non conosceva prima dell’insorgere della malattia; degli altri dice che il suo cervello, tramite i dettagli, riesce a ricostruire il volto anche se non collegando tutte le parti tra loro. È qualcosa di straordinario.

Molto strano che sia una malattia legata al mondo dello spettacolo e della recitazione dove gli attori sono portati a uscire da se stessi e anche gli artisti…

Salvo: È assurdo però è così… c’è una scomposizione cubista all’interno della testa quando si approccia un volto nuovo.

Giuseppe: Il disturbo è particolare perché è uno di quei disturbi dove conta molto la personalità, l’essere se stessi appunto: noi riconosciamo il mondo che ci circonda ed è in quanto lo riconosciamo che riconosciamo e siamo noi stessi. L’angoscia più terribile è perdere la conoscenza di sé: questo è l’orrore vero e proprio che caratterizza l’opera.

Nell’opera, c’è anche una spinta verso il positivo. Senza rivelare troppo… mi sembra che ci siano due filoni, se ho capito bene, in cui si muove questo aspetto positivo: uno è legato alla tradizione, all’artigianalità – all’inizio vediamo un laboratorio in cui vengono modellati degli oggetti in creta, con una maestria artigianale che sposta il concetto di cura di sé in un tempo non solo personale; e poi il filone più esoterico: Ester cerca se stessa andando da un parapsicologo Emilio Anselmi (Vito Benicio Zingales).

Salvo: Sì, la prima sequenza del corto è girata in realtà nel laboratorio di Giuseppe… che sta plasmando la materia, e plasmandola dà vita a un processo maieutico: questo “tirar fuori” dal blocco di creta. Tirar fuori che cosa? È quello cha fa Emilio con Ester, riuscendo a plasmare e incanalare il suo flusso. Le due cose sono collegate.  Ma era anche bello, uscendo dalla storia, che Giuseppe potesse plasmare la materia come ha fatto con gli attori, per esempio.

C’è anche una musica molto più carezzevole..

Salvo: È una preparazione come un warm up prima dei concerti, in cui scaldare la voce e accordare gli strumenti, il warm up dell’orchestra, ci si sta preparando..

È quasi meta-cinema

Salvo: È un casino, lo so…

Una cosa che mi avete fatto notare voi, e che è un non detto forte del film, è l’assenza totale di riferimenti alla mafia e alla solita Sicilia con la lupara, perché questo?

Salvo: Siamo siciliani e praticamente ogni cosa che esce da quest’isola è legata soltanto a un tema, e per me, per noi, è umiliante.

Con tutto il rispetto, abbiamo girato l’Europa, ci siamo formati ovunque, e devo dirti che siamo legati a un retaggio culturale fastidioso che vogliamo scardinare. È una cosa imbarazzante, il mondo va avanti, l’arte va avanti, e qua in questa terra sembra quasi lo slow motion… andiamo avanti piano piano e poi torniamo un po’ indietro, la gente che ha produzioni grosse con davvero tanti soldi, potrebbe creare tantissime situazioni, ma qui la Rai non finanzia se non si parla di mafia, se non ci sono due colpi di pistola qua non si muove un chiodo, e per me da siciliano è umiliante. 

Giuseppe: Un cinema un po’ scontato, ecco, troppi stereotipi…

Per esempio gli americani sono molto più bravi perché quando vogliono esplorare le dinamiche proprie di un territorio ti ci fanno entrare dentro, ti mostrano tutte le viuzze, senti quasi gli odori, entri a Chinatown, cammini per Philadelphia.. e alla fine non sono cliché. Qui invece della Sicilia cosa si vede? Vediamo Il capo dei capi, e buonanotte… 

Salvo: Il sentimento che c’è qua, a maggior ragione ultimamente che siamo scenografie per tante produzioni straniere è che ci dipingano come nature morte: come se tu mi chiedessi della frutta e io ti portassi il quadro di una natura morta. Stanno girando un film nell’entroterra (tra i tanti): una produzione Netflix con Zoe Saldana in cui lavorano dei ragazzi della Fante di Quadri. Nella scena in cui Zoe Saldana scende dal bus in shorts e maglietta, tutti hanno le coppole, ancora, nel 2020.

Io sono confuso, non so che sentimenti esprima il film…

Giuseppe: È sempre Il Padrino, Il Padrino… è la ghettizzazione del cinema.. troppe variazioni sul tema…

Salvo: La coppola… la coppola!

Un cinema noioso e poco coraggioso… nonostante le tante scene d’azione. Ma sono costretta a chiudere… prima però vorrei chiedervi un’ultima cosa: sul titolo “La Danza degli Specchi,” come mai questo titolo così evocativo e classico? Nel finale assume un significato narrativo ma forse non è solo questo.

Salvo: È un’immagine. Stavo lavorando sul significato di questa immagine prima di andare alla riunione con Giuseppe quando poi abbiamo buttato giù il corto ed è il Narciso di Caravaggio.

Giuseppe: E poi c’è la scena di Ester che si guarda allo specchio.

Salvo: E quello è il nostro Narciso… perché materialmente se tu ruoti di 90 gradi vedi Ester che è come il Narciso di Caravaggio, si specchia nella irriconoscibilità di se stessa e del suo mondo, che è il tema che poi ci accompagna nel raccontare questo cortometraggio. 

Lo specchio è il medium con cui ti guardi ma quello che vedi non sei tu, è qualcosa di speculare alla tua forma esteriore.

Giuseppe: Rappresenta anche l’inconscio.

Si dice che lo specchio non menta mai, in realtà non è vero…

Salvo: Assolutamente, lo specchio è assolutamente falso! È uno stratagemma, noi non siamo mai quello che vediamo… Per l’arte, per l’iconografia artistica, lo specchio è il falso, non è mai il vero, perché quello che tu vedi non è mai quello che sei…

Giuseppe: “Specchio specchio delle mie brame!” infatti.

Silvia Lumaca

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