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Silvia Lumaca. Nomadland

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Nomadland (USA 2020)

di Chloé Zhao (regia, sceneggiatura, montaggio, co-produzione)

Tratto dal reportage “Nomadland: Un racconto d’inchiesta”  di Jessica Bruder (2017, pubblicato in Italia nel 2020 da Edizioni Clichy, su traduzione di Giada Diano)

Jessica Bruder sarà presente al Salone Internazionale del Libro di Torino per un incontro col pubblico domenica 17 ottobre, ore 15:30-16:30, Sala Internazionale Pad 1.  Dialoga con lei, Claudia Durastanti, traduttrice e autrice.

I nomadi si trovano ovunque, a ogni latitudine ma ci sono certi luoghi dove sono più accolti, l’Italia non è fra questi, non è una nazione abbastanza borderline ma lo è il Mediterraneo, e così tutt’intorno a noi ci sono nomadi che si spostano senza farsi notare.

Fern — Frances McDormand premiata con l’Oscar alla Miglior Attrice Protagonista — è una nomade nordamericana, una nomade delle praterie del Midwest e dei lavori stagionali negli zoo del Canyon, nei fast-food nel deserto del Nevada e negli hub di Amazon dove la paga è buona e troverà altri borderlines nomads come lei, spesso gli stessi, espulsi o fuoriusciti dalla società, ormai non tanto giovani, non tanto belli, quanto all’istruzione non conta più se hai fatto l’università o no.

Fern — che significa “felce”: una pianta che si riproduce col vento, tramite spore, senza semi e neppure fiori… — probabilmente è stata un’insegnante di letteratura ma viveva lo stesso in una casa di plastica e cattivo legno che non ha potuto neanche rivendere dopo averla lasciata, valore zero, e negli anni di lavoro, senza neppure strafare, non ha messo da parte quasi niente.  — ecco la crisi made in Usa del mutui sub-prime —

Deve lavorare, “quando vuole iniziare a lavorare?” le chiede l’impiegata del collocamento, “Non lo so, adesso?” Non posso restare senza lavorare, la pensione anticipata non basterebbe, lavorare mi piace. Sì, ma quale lavoro? Tutti…. e infatti l’impiegata le risponde: “Io non capisco che cosa lei sappia fare.”

Le vite precarie della classe di mezzo al niente, che non sappiamo neppure definire, meglio definirle come insieme di vite, che non come classe.

Vite che possono esser spazzate via in un soffio senza che nessuno se ne accorga.

Tutti gli amici di Fern vivono in posti senza niente intorno: sua sorella, l’unica inserita, vive a esser gentili in una periferia di una periferia della periferia dell’ovest.

“Non potevo lasciare | EMPIRE – cittadina industriale nel deserto del Nevada — Non abbiamo avuto figli, se fossi andata via (dopo la morte di mio marito) sarebbe stato come se Bo non fosse mai esistito.”

Il suo nuovo ‘amante’ — David Strathairn, bravissimo volto di attore nato negli anni ‘80 con l’autarchico/anarchico John Sayles — (non ci saranno che sguardi, gentilezze e mezze parole), anche lui ex nomade probabilmente dopo la perdita della moglie, viene riportato alla vita “normale” non nomadica da un figlio che vive in una casa dove c’è solo quella casa. Intorno vediamo solo praterie.

I nomadi, i drop-out, non esistono, non si vedono, sono come puntolini nell’oceano, sono come la neve sotto il sole, come mille coni gelato in tutto il Golfo del Messico. Loro e le relative famiglie. Non esistono.

“Tutti i miei tatuaggi sono frasi tratte dai brani degli Smiths” dice il primo (o la prima, emblematicamente non si capisce) collega di Fern, un* gigante di grasso e muscoli con l’animo evidentemente da esteta ed è vero che il responso (forse) brutale della visione – vecchiaia, bruttezza, Amazon, furgoni scalcinati – non si sposa con il lirismo delle musiche — di Ludovico Einaudi, non originali — che alzano per un po’ quella patina di bruttezza e ci trascinano in una danza melodiosa, fino a che via via la vita di Fern ci diventa più chiara e sembra di nuovo tutto bello anche a noi.

Mi sono identificata tantissimo con Fern, perché ho vissuto in quel Mediterraneo che non è l’Italia né NordItalia… dove se hai le antenne al posto giusto è facile incrociare la via dei mille viaggiatori, accoglierli a casa, condividerne i pasti e i pensieri.

Le comunità di nomads in cui va Fern sono roulotte e case viaggianti nel deserto parcheggiate in qualche radura o parcheggio probabilmente vicino a un grosso polo industriale.

Sono nuovi hippies con l’età che avrebbero i vecchi (hippies) ma non è detto che siano le stesse persone, non c’è un legame così diretto, il film non indaga questo aspetto, non importa.

I nomadi sono sempre nel presente, sono il presente più diretto della loro civiltà.

Una bandiera nera con il simbolo in bianco del teschio con le tibie incrociate sventola su un furgone di fianco a quello di Fern. Lo vediamo una prima volta, ma Fern non gli si avvicina. Poi però buca una ruota, e Fern deve bussare al pirata.

Apre, scocciata, una donna sui 75, piuttosto contrariata appunto: “Non hai visto la bandiera? Vuol dire che non voglio essere disturbata.”. La battuta più geniale, delle tante del film.

La pronuncia Swankie, che è una vera nomade nel senso che è nomade anche nella vita. Nei titoli di coda è semplicemente Swankie. In Nomadland tutti hanno tanti morti sul groppone – come dice il guru della comunità, è anche per motivi anagrafici, ma Swankie è l’unica che muore dentro il film, durante il suo svolgimento. Forse non è un caso, i nomadi, infatti, sono destinati a sparire.

Ne arriveranno altri.

“Siamo atomi di stelle esplose miliardi di anni fa cadute sulla terra che ora avete sulla mano.”

 — Chloé Zhao — classe 1982, regista di origine cinese — Cina, dove non può tornare per motivi politici — alla sua terza prova da regista, mentre ne aveva avute altre in veste di sceneggiatrice, montatrice e produttrice — si è aggiudicata con Nomadland il Leone d’Oro al Festival di Venezia 77, il Golden Globe per il Miglior Film Drammatico e la Miglior Regia, l’Oscar al Miglior Film e alla Miglior Regia, il British Academy Film Award per il Miglior Film e la Miglior Regia (Frances McDormand lo vince come Miglior Attrice), il Boston Society Film Critics Award per il Miglior Film e la Miglior Regia (Joshua James Richards lo vince per la Miglior Fotografia) e la lista potrebbe andare avanti ancora molte righe, British Independent Film Award, Chicago Film Critics Association Awards, Los Angeles Film Critics Association Awards, New York Film Critics Circle Awards, Toronto International Film Festival, Gotham Independent Film Awards, Independent Spirit Awards, National Society Film Critics Awards, San Diego Film Critics Society Awards, Satellite Awards, Dorian Awards…

Tantissimi premi, in larga parte nordamericani, molti da parte di festival con giurie di critici cinematografici — non sempre nelle giurie dei festival più importanti ci sono critici, chissà se è la scelta giusta, Venezia quest’anno non ne aveva nessuno… — tutti premi — credo — meritatissimi.

Zhao trae la sua sceneggiatura da un reportage firmato dalla giornalista statunitense Jessica Bruder, dal titolo omonimo, che per scriverlo ha vestito i panni della nomade, ossia ha fatto di un furgone la sua casa, per un progetto durato tre anni, e 15mila chilometri.

Ha passato veramente le sue notti davanti al fuoco con Swankie — proprio Swankie,  quando era in buona — e avuto il deserto come toilette come Fern.

Non l’ha scritto facendo telefonate e girovagando in internet… un tipo di giornalismo in prima linea sempre più prezioso e — paradossalmente, alcuni forse penserebbero — sempre più richiesto, se negli Usa spesso sono i lettori stessi a finanziare le lunghe inchieste giornalistiche delle loro testate di fiducia tramite campagne di crowd-funding, una pratica che speriamo — insieme ai nuovi tofu burger MacDonald — di importare anche qui da noi.

Jessica Bruder, anche lei giovane donna impegnata, giornalista e studiosa di sottoculture per New York Times, New York Magazine, Harper’s Magazine, Wired Usa, con Nomadland ha vinto il Barnes & Nobles Discover Award nel 2017.

Sarebbe bello sapere su che cosa stia lavorando adesso, ma su internet (sic), non ce n’è traccia, forse meglio andarglielo a chiedere di persona al Salone Internazionale del Libro di Torino questa domenica. Ricordo infine anche che Chloe Zhao chiuderà la Festa del Cinema di Roma con l’anteprima del suo primo colossal hollywoodiano, il Marvel Eternals di cui è regista e co-sceneggiatrice insieme a Patrick Burleigh, e i cugini Kaz e Ryan Firpo — altri due giovani cineasti da tenere d’occhio — da una loro storia originale basata sui personaggi e la saga comics ideata da Jack Kirby nel 1976.

Silvia Lumaca

 

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