La scimia (con una sola m) Tombo è la protagonista di un celeberrimo racconto di un celeberrimo irregolare delle nostre lettere, Tommaso Landolfi.
Di proprietà di due zittelle (con due t), Tombo di notte si scioglie dalla catena, fugge via dalla sua gabbia e va nel vicino convento dove, salita sull’altare, mimando il rito sacro, mangia ostie e beve vino, per giungere una notte addirittura a “scompisciare l’altare”. Sacrilegio!
Scoperta dalle due vecchie e dalle suore, verrà finita, con l’entusiastica benedizione di Monsignor Tostini e nonostante la memorabile difesa di Padre Alessio, con “un lungo spillone da cappelli, uno di quegli oggetti che nelle famiglie perbene si tramandano di generazione in generazione”.
Ecco, chissà perché, ma a me, Tombo, la scimia landolfiana, è sempre parsa un’allegoria della poesia moderna, dei suoi rapporti con le convenzioni, con le ‘forme’, del suo destino d’essere tollerata finché sta alla catena, in gabbia, ma immediatamente assassinata (d’incuranza, silenzio, dileggio, mercato, povertà), se decide di dire la sua con forza, di uscire dallo schema che la vuole arte vecchia, ormai d’antan, buona al massimo come fiore all’occhiello di questo o quell’editore ‘sensibile’, immantinente trafitta dallo spillone del mercato, se pretende d’occupar nuovi spazi, di rivoluzionare le sue forme, d’esser scomoda, di scavare le pieghe della lingua e della realtà.
E a questa poesia nostra contemporanea, alla scimia Tombo, insomma, è toccato in sorte di vivere in un mondo in cui non c’è più traccia nemmeno di quel pessimo avvocato che fu, per il quadrumane landolfiano, il buon Padre Alessio.
Le è toccato di vivere in un’Italia che, oltre ad essere un Ytaglia, è, per di più, un Ytaglia totalmente romanzo-centrica, in cui davvero sembra, ogni giorno di più, che la letteratura, o meglio, le arti del linguaggio e della parola, si limitino al romanzo (e si badi bene, non alla prosa, ma al romanzo, proprio).
Quale momento migliore di questo, inzeppato di premi ‘letterari’, per tornare a parlarne?
Passi per editor, ragionieri del sedicesimo, dirigenti marketing, direttori editoriali, et similia: il loro è un comprensibilissimo (e proprio perciò desolante) punto di vista.
Ma certi romanzieri, quelli no, non anche loro. Eppure…
Chi ne volesse segno potrebbe, ad esempio, dare un’occhiata alle risposte offerte a un’inchiesta proposta nel 2010 dagli amici di Nazione indiana 2.0, titolata La responsabilità dell’autore. Non credo molto sia cambiato in questo lustro, anzi. Maggiani che riscrive le Operette (avete capito bene: Maggiani ha riscritto le Operette morali di Leopardi, le ha – come dire? – ri-attualizzate, posto che Leopardi abbia bisogno d’esser attualizzato e io ne dubito fortemente) e compie il miracolo di farmi convenire con Parente è di appena l’altro ieri…
Per la verità l’inchiesta era dedicata a tutt’altro, ma fatto sta che all’intervistatore, nel formulare la prima domanda, parve normale (come dargli torto?) chiedere tanto di prosa, quanto di poesia. Ingenuo…
La maggioranza dei narratori intervenuti (che erano peraltro la maggioranza degli intervenuti) diceva sulla poesia cose abbastanza incredibili e inaspettate: nel senso che non ne diceva nulla.
Meglio: o taluni, con l’invidiabile serenità dei semplici, ammettevano di non leggerne, almeno non di contemporanea e (non sia mai!) italiana, di non saperne un fico secco insomma («Circa la poesia, sapendone poco o nulla, mi astengo da qualunque commento»), o tali-tanti altri ne tacevano, quasi che quella parola compresa nella domanda posta dall’intervistatore fosse una sorta di fàtica formula di cortesia, come il ‘tutto bene?’ a cui non è certo necessario rispondere.
C’era chi tra loro arrivava a sostenere che la colpa è dei poeti, che non sono abbastanza ‘personaggi’, che non sanno essere amichevoli con l’audience: «I poeti in Italia non contano nulla. Non vengono letti. Non vengono analizzati. Non vengono capiti, quando vengono letti. E la pratica poetica diventa spesso un alibi ancora peggiore. Un’occupazione da letterati anonimi. […] Gli unici poeti italiani che riescono a gettare un labile ponte verso il mondo sono Aldo Nove e Patrizia Cavalli: sono sguardi riconosciuti da una fetta di lettori più ampia di quella dei lettori di poesia. Il resto è auto-ottico.»
Non fosse orribile (e anche un po’sin verguenza), sarebbe ridicolo. Proprio coloro che dovrebbero difendere la scimia con l’ardore di Don Alessio, si fregano le mani al pensiero dell’imminente esecuzione: Monsignor Tostini che non sono altro, la trasformano in un Carneade in rima, degni eredi di quel ben noto Abbondio, la cui razza, si sa, attualmente in Italia abbonda.
Eppure anche loro, in fondo, non sono, darwinianamente, altro che scimie, scimpanzé. Sia pure in prosa, ma pur sempre scimpanzé.
E poi, visto che la poesia è quell’arte che più d’ogni altra serve per ‘tenere in esercizio la lingua’, come sosteneva Mastro Pagliarani, e che dunque è arte amichevole con la prosa romanzesca e ad essa è indiscutibilmente utilissima, se non altro quanto lo è l’uccello all’emù, o al rinoceronte, sulla cui testa sta, il pesce pilota alla rotta dello squalo, la scimmia spidocchiante a quella spidocchiata, tutto ciò sembra segnale di come tristemente per certi (tanti, fin troppi) prosatori, l’arte del romanzo, in fondo, consista sostanzialmente nell’invenzione di un plot vendibile, intrigante, molto ‘instant’, di migliaia di plot, uno diverso dall’altro, ma tutti narrati con la medesima, piatta, lingua ultra-mediale e tristemente cinefila, bene accetta al mercato, sia pure nella sua nicchia ‘sinistra’.
Migliaia di storie che sono sostanzialmente, la medesima. Anche molte di quelle che arrivano in finale ai grandi premi.
E non si dica che non è affar nostro: ché i poeti narrano, invero incontrovertibilmente, da secoli prima che chicchessia romanzasse.
La poesia, per parte sua, intanto cambia, almeno una certa poesia, quella che ha coraggio di rischiare le sue carte sul tavolo della nostalgia del futuro. Essa muta le sue forme, e se certuni CPPP (Critici Partigiani del Poeta Postumo) la danno per postuma, forse è anche perché, letterati come sono, cioè muti e sordi, non hanno più gli strumenti per comprendere, per analizzare il corpo presente della poesia, che è corpo plurivoco, multimediale e multimorfo, corpo vocale, che respira e ‘avviene’, corpo iconico che significa al di là dell’alfabeto. Un corpo che esegue la sua arte.
Per questo, io, che sono un Tombo, allo Strega tifavo per Zero Calcare e l’anno scorso per Gipi. Perché narrazione non è sinonimo di romanzo. Può esserlo anche di vignetta (o di endecasillabo).
Ovviamente, anche quest’anno ho perso e questo, paradossalmente, mi rassicura.
E anche se alla fine, certamente, quelli che contano davvero nelle patrie lettere lo spillone giusto per noi poeti, siatene certi, lo troveranno, e forse lo hanno già trovato, noi Tombo, nel frattempo, continueremo a esser giambici e non è poi detto che riescano a infilzarci.