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Startus. Intervista a Valerio Massaroni

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Valerio Massaroni, Startus, nota introduttiva di Giulia Cittarelli, collana Melanos, edito nel 2022 per ECS Edizioni del CentroScritture.

Startus è un significante che non esiste ed è il titolo del libro che Valerio Massaroni ha pubblicato riesumandolo da un letargo di anni, spinto da una necessità che colloca questa scrittura e questa forma della pagina nel dondolio tra i due poli ancestrali di eros e thanatos. Non di sole parole vive questo libro ma anche di spazio tipografico di font e di segni. Dalla lettura è evidente un godimento, un piacere sadomasochistico, di fare nella pagina, nell’arte, quel che nella vita non siamo liberi di fare: al di là del bene e del male, la poesia di Massaroni è catartica, quasi terapeutica. Ma anche nemesi: quando nel dolore sublimato sulla pagina la necessità di essere riconosciuti fa della scrittura la nostra vendetta nei confronti proprio, magari, di quell’insensatezza che sta nella morte e nella malattia. Startus è ripartito in cinque sezioni e non fosse un libro probabilmente sarebbe la vita, visto che la scrittura, secondo l’autore, compensa la vita delle sue insofferenze e mancanze: non fossimo mancanti non sentiremmo il desiderio di completarci nell’arte e con l’arte. Ma l’arte, e la scrittura, hanno sempre un rapporto particolare con la censura: togliere la parola, vietare, non fa altro che generare la violenza opposta sul piano materiale delle cose per riaffermare ciò che è tolto. Startus è anche un esperimento e una necessità che si pone al di là di ogni commercio col mondo, è un’impresa simbolica e spirituale, oltre la morale: il resto, che segue il momento di scrittura hic et nunc, il glorioso momento di libertà della creazione, il dopo, la relazione pubblica del libro col mondo, è un surplus che interessa poco a un autore malato (di scrittura)…

Gianluca Garrapa

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Genesi e desiderio del tuo libro.

Il libro è stato scritto nell’arco di tempo che va dal 7 febbraio 2015 al 5 gennaio 2017 e pubblicato solo quest’anno per ECS, il nuovo marchio editoriale del CentroScritture. Non ha avuto modifiche da allora, si è fatto semplicemente cinque anni buoni di letargo. È inscritto in una serie di esperienze che hanno segnato quel periodo, è del tutto tracciato dalla contingenza, non aspira a nessuna universalità. Non parla né vuole parlare a tutti – non c’è niente di più arrogante della pretesa di parlare per tutti – è già tanto pretendere di parlare per sé stessi. È spinto piuttosto dalla necessità di esprimere, di dare forma, di rendere materia un complesso di stati d’animo e visioni, cose di per sé ineffabili. E di rispondere alla sfida che pone la scrittura, che è una sfida anche culturale: in ciò sta l’aspetto esterno, che non ci appartiene, la risposta che diamo all’immaginario collettivo, alla storia dei simboli e delle forme, pubblicando, cioè rendendo pubblico, un libro. Se poi qualcuno ci trova qualcosa che lo riguarda tanto meglio, altrimenti poco male. La necessità che spinge questo libro si muove senz’altro sui due binari, vecchi quanto l’uomo, questo sì, di eros e thanatos. La pulsione di morte – una morte come fine, termine, silenzio, vuoto, sospensione assoluta di tutto l’esistente – domina. Il principio del piacere, che si afferma soprattutto nell’ultima delle cinque sezioni, è il principio vitalistico che fa da ombra alla pulsione di morte, che la insegue, che gli toglie consistenza ed efficacia, che la disinnesca. Che tiene in vita nonostante la tentazione irresistibile della morte. Che sulla pagina diventa la tentazione irresistibile dello spazio bianco, contro il peso dei caratteri (i font, i segni, le parole, la materia simbolica, la volontà di dire).

Quando scrivi, godi?

Appunto. Se scrivere è un peso, quando vuole dire la vita – e la vita, se presa sul serio, almeno per certe sensibilità, è insostenibile – allora l’unico piacere possibile è un piacere sadomasochistico, che se non si può esprimere compiutamente nella vita reale trova invece un habitat in quella artistica: lì si può uccidere chiunque, violentare chiunque, distruggere, sterminare, oltraggiare, annullare, e al contempo violare la lingua, i codici, le norme, le consuetudini, il buon senso etc. E in ciò si prova un piacere, che altro non è se non il piacere della libertà, di dare voce a quelle parti di noi che non hanno, non possono e non devono avere voce nella vita reale. È la funzione catartica dell’arte, antica quanto Aristotele, o terapeutica, se vogliamo metterla in modo più moderno. Non perché ci sia qualcosa di sbagliato o deviato in queste parti di noi, che valgono tanto quanto tutte le altre – l’uomo, in sé, è al di là del bene e del male, e così l’arte, quando è libera da tentazioni critiche o moralistiche, che sono sempre viziate di narcisismo (tipo “io so e adesso ti dico” che tradotto in termini psicologici vuol dire “stammi a sentire, dammi importanza”). Ma perché, alla fine, è sempre meglio stuprare una pagina che una persona. Credo sia tutto qua. Per il resto, dietro questo libro non c’è alcuna ambizione di conoscenza, di un senso, di un fine, di alcunché di edificante. È già fin troppo edificata la vita reale, costruita su quegli “errori necessari”, per dirla con Nietzsche, che sono le verità. Di cui nell’arte ci si può per fortuna liberare.

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?

Ti direi uno dei passaggi più direttamente ed esplicitamente biografici. A pagina 57, terza sezione, si fa riferimento alla morte di mio padre. Non ne dirò qui, c’è una nota nel libro che riporta il fatto. È la resa all’ineluttabilità insensata – che afferma la mancanza di senso e lo fa in modo esemplare – della morte, e soprattutto di una morte di quel tipo. È stato difficile scriverlo perché scrivere di sé, cioè mettere a tema le cose della propria vita, è sempre imbarazzante, specie se sono cose gravi. C’è il sospetto più che fondato di sublimare strumentalmente le proprie tragedie, di farne materia estetica, che è l’aspetto più volgare dell’arte. Anche se ne scrivo, quindi, lo faccio pentendomene: “sbagliate sono sempre tutte le parole”, si legge là in mezzo. Mi serve anche a dire che si perde così, a scrivere, si diventa freddi proprio come quei segnetti immobili sulla pagina. E anche questo è catartico. Ma poi siamo vanitosi e avidi, ci compiacciamo di possedere anche una forma sublimata di un’insensata tragedia e di esibirla. Perché purtroppo siamo umani, non abbiamo la gelida bellezza di un carattere stampato su una pagina, che sta lì inerte e non chiede nulla. Noi vogliamo essere interpretati, ascoltati, riconosciuti. In questo senso la scrittura è la nostra nemesi.

(Quando dico “nostra” o uso l’impersonale lo faccio per evitare di dire troppo “io”, che è poco elegante. Ma tutto ciò che dico vale per me e magari per qualcuno che la vede e la sente in modo simile. Poi la maggior della gente ha altri problemi e giustamente, pure se scrive, se ne frega della scrittura e di cosa voglia dire “nemesi”.)

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Un libro non scritto dopotutto è la vita. Questo libro, se non fosse scritto, sarebbe la vita. Così credo funzioni per chi ha la malattia della scrittura, che sta sempre lì a pensare a come buttare tutto su una pagina, mentre vive. Perché altrimenti sente di vivere a metà. In realtà questa malattia è un’abnegazione dalla vita. Se si vivesse pienamente non si sentirebbe alcun bisogno di scrivere, o di fare arte in generale. La scrittura quindi è complementare alla vita, tendenzialmente la compensa. Un giorno saremo tutti costantemente sedati da questo male-di-vivere, ci saranno droghe di ogni tipo per ingenerare le sensazioni e gli stati d’animo che desideriamo, e magari anche le percezioni e i sentimenti. Allora non ci sarà più bisogno di arte nel senso di cui ti sto parlando, che è una droga, ma tutto sommato è una droga debole. Non penso neanche che quel giorno sia tanto lontano. L’arte resterà come strumento per ottenere riconoscimento, per essere osservati, desiderati, apprezzati. La stessa cosa di un vestito.

Che rapporto hai con la censura?

Facile facile: se tu adesso decidessi di venire a sfilare sotto casa mia sfoggiando svastiche e inneggiando a Hitler e auspicando la riapertura dei campi di concentramento, io mi goderei la scena e sarei felice per te che hai la fortuna di esaltarti con così poco. Ma né te né nessun’altro può vietarmi di replicare e darti del coglione, e a te di rispondermi. Anche perché non c’è modo migliore di armare un integralista che togliergli la parola.

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Un mestiere mai, per carità. L’arte come mestiere è l’arte cosmetica, pure se di alto livello. L’arte come necessità di affrontare il male-di-vivere che ci brucia dentro non può che porsi al di là di ogni commercio col mondo, è su un piano spirituale, se vogliamo cedere a questa parola un po’ idiota. Che poi, in termini che mi sono più congeniali, vuol dire essere disinteressati. Non avere alcuna altra esigenza o condizionamento che non sia quello di esprimere e dare una forma a un certo stato esistenziale o a una certa visione. Se è così, come diceva Pasolini, allora un’opera d’arte è sempre una contestazione vivente. Poi c’è la vita reale, i libri che si pubblicano, si comprano, si presentano, si leggono, si commentano, gli autori, i profili social, le interviste, la cultura. Ma a quel punto la sua funzione per me cruciale, che è quella di essere un’occasione di libertà, che si dà solo nell’atto della scrittura, se parliamo di scrittura, l’arte l’ha già esaurita. E a un autore realmente malato dovrebbe bastare.

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