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Stefano Bonazzi inedito. La terza scelta

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Vado a letto alle 22.

Faccio scendere quindici gocce sotto la lingua. Ho letto in rete che in questo modo fanno effetto più in fretta.

Mi stendo sul lato destro, il sinistro cerco di evitarlo, sempre. È la parte del cuore, non va bene dormire dalla parte del cuore, col tempo si rischia di affaticarlo.

Metto un cuscino in mezzo alle gambe, sposto la parte più imbottita proprio nel mezzo, tra le ginocchia, non sopporto l’idea che si tocchino fra loro, nemmeno il contatto.

Spingo forte i tappi dentro le orecchie finché non sento la gommapiuma che tocca contro la parete interna. Sistemo la mascherina sugli occhi, apro prima il sinistro, poi il destro.

Nero, solo nero.

Forse questa notte non arriveranno.

Invece, arrivano.

All’inizio è solo un brusio lontano. Uno sciame di aironi in fondo alla vallata. Da piccolo li vedevo passare dalla finestra della mia cameretta. Adesso fuori ci sono solo finestre e sconosciuti che le attraversano, il cielo da qui non si vede nemmeno se alzi la testa.

Gli aironi volteggiano, sono piccoli, lontani. Posso controllarli.

Il braccio in mezzo alle gambe inizia a informicolarsi, succede quando ti addormenti, dicono, eppure io non mi sono addormentato. Devo spostarlo, non voglio svegliarmi nel mezzo della notte con una parte del corpo insensibile. È già successo ed è davvero sgradevole. È come se ti mancasse un pezzo del corpo. Mi butto di peso dalla parte opposta, mi muovo come un pesce spiaggiato. Spero che l’arto si metta nella posizione giusta, sento il cuore che pulsa e il reflusso del sangue interno che, a forza, ritorna a prendersi i suoi spazi. Sento anche lo sforzo del muscolo cardiaco che pulsa nello sterno e penso che forse questa volta non ce la farà. E se lui non ce la farà io resterò qui, da solo, nel letto sfatto, in una posizione ridicola, con gli occhi spalancati, la lingua penzolante. La prima persona che metterà piede nella stanza si troverà davanti una sorta di animale storto e freddo, senza più nulla di razionale addosso.

Appena riesco a muovere la mano alzo la mascherina, il display della sveglia segna le 23:10. È già passata un’ora e non sono riuscito a prendere sonno. Ormai sta diventando la norma.

Ho letto in rete che dopo otto giorni d’insonnia il corpo inizia a cedere ma ci sono persone che possono resistere anche trenta giorni senza dormire. Pare che Michael Jackson sia arrivato a sessanta. Io però non sono Michael Jackson. Io devo dormire.

Se non dormo non riesco a lavorare. La mattina devo essere lucido. Il pomeriggio devo essere lucido. Scrivere codice non permette distrazioni. Non è come fare l’edicolante o il barista.

Devo essere lucido, devo riposare e per riposare devo dormire.

Mi alzo e prendo la confezione di Tavor. Non va bene mescolare i medicinali ma lo Xanax ormai non mi fa più nulla.

Ingoio la pasticca, torno a sdraiarmi. Lascio la mascherina sul comodino, la stanza illuminata solo dal riverbero rosso della sveglia. Non sopporto il ticchettio delle lancette ma quelle cifre rosse, enormi, mi ricordano delle sbarre di metallo incandescente. Barre che scattano. In orizzontale e verticale. Scattano in silenzio, veloci.

La testa non si fa pesante, i muscoli non si rilassano. Sento le gambe tese, ogni tanto uno spasmo le fa guizzare avanti.

Lo stormo che prima era in lontananza ora è più vicino, sento le loro ali che battono dietro la tapparella, alcuni si posano sulla ringhiera del balcone. Gli aironi sono diventati corvi, dovevo immaginarlo. In città non possono viverci, gli aironi.

Gli aironi mi piacciono.

I corvi invece li odio.

Perché i corvi fanno domande.

Vogliono sapere il motivo per cui sono ancora lì. Sveglio. Perché non me ne sono già andato dall’altra parte. Vorrebbero aiutarmi, così dicono, ma io lo so, ho certezza, che loro in fondo in fondo, si stiano solo prendendo gioco di me.

Uno di loro si avvicina, gracchia nell’orecchio. Dice che sto sbagliando tutto. Che se non dormo, domani non concluderò nulla e se non concluderò nulla, verrò licenziato.

Lo sento mentre si allontana ridendo.

I corvi non sanno ridere.

Quella è una risata umana.

Ne arriva un altro.

Chiede di te.

Chiede dove sei, chiede perché l’altra parte del materasso e vuota. Vuole sapere con chi potresti essere in questo momento, chi mi ha sostituito, mi propone di fare qualche supposizione. Il corvo non ha fretta, lui ha tutto il tempo di questo mondo. Io mi rifiuto, provo a impormi, gli rispondo che non va bene, che io non ce l’ho tutto questo tempo, che devo riposare, ma questo corvo è più insistente dell’altro. Questo corvo non ne vuole sapere, di volare via. Gli chiedo di essere comprensibile, lo supplico, gli spiego che se lo facessi, se lo assecondassi, entrerei in un circolo di pensieri ancora peggiore e il mio cuore tornerebbe a pulsare più veloce, il Tavor perderebbe il suo effetto. Un disastro, insomma. Lui ride, ride più forte dell’altro e anche la sua risata non ha nulla di animale. Vuole sapere che effetto ha quella pastiglia. Non è convinto della sua efficacia. Dice che è maleducazione mandare via le persone, anche i corvi. Dice che tanto è inutile, che presto arriveranno gli altri.

Apro gli occhi, mi metto a sedere sul letto, poggio la testa nelle mani, resto qualche minuto con i palmi premuti sulle orecchie. Schiaccio sui tappi in lattice che a loro volta premono dentro i timpani. Sento un ronzio e per qualche secondo mi illudo di poter sentire solo quello.

Vado in cucina, verso un dito di camomilla nella tazza, un dito solo, non voglio ritrovarmi domattina con la vescica piena. Ingoio tutto, insieme a un altro Tavor.

Torno a sdraiarmi, evito di guardare il display. Se non lo guardo, non posso sapere che ore sono. Se non so che ore sono, non posso sapere quanto manca alla sveglia.

Quando sono entrato sotto le coperte era tutto freddo, ora il letto sembra un budello. Le lenzuola sono calde, impregnate di sudore. Devo ricordarmi di metterle in lavatrice, domani sera.

Porto il lenzuolo fino alla bocca, non di più. Il naso deve restare libero altrimenti potrei soffocare nel sonno, se riuscissi ad addormentarmi.

Mi chiedo dove ho sbagliato.

Ho seguito tutte le regole. Mi sono cucinato del pollo alla piastra, un po’ di verdure bollite condite con un filo d’olio. Il vino non l’ho nemmeno toccato. Non ho fatto attività fisica prima di stendermi, non la faccio mai, non ne ho il tempo. Ho evitato di mettermi al computer dopo cena, il cellulare ha lo schermo rivolto verso il basso, le notifiche sono tutte silenziate.

Ho seguito le regole che ho trovato in rete ma il sonno non arriva lo stesso.

E tutte quelle risate.

Il vociare.

A volte mi pare provenga dalla mia testa, altre volte dall’appartamento sotto il mio. C’è un napoletano che parla voce alta tutta la notte. Mi alzo e prendo la scopa. Batto qualche colpo sul pavimento e torno a sdraiarmi ma poi penso che tutto quel movimento e quei pensieri avranno di certo annullato l’effetto del Tavor. Infatti ora non mi sento più stanco. È ingiusto, ridicolo. È una presa per il culo. Arrivo a casa ogni sera stremato. Le ultime ore in ufficio sono le peggiori. Mi trascino con le dita sui tasti e la mente pesante come fosse avvolta da una coperta di feltro. Se potessi appoggiare la testa sulla tastiera, anche solo per qualche secondo, se potessi staccare gli occhi dallo schermo e piegarmi, sono sicuro che lì mi addormenterei.

Solo quando sono a letto non ci riesco.

La casa è vuota ma non c’è silenzio.

La casa è vuota ma la testa è piena di pensieri.

Sono le due e mezza passate, ormai.

Alla fine ho ceduto, ho guardato il display. Il cuore è tornato a pompare forte dopo quella visione. Manca davvero poco alla sveglia. Oggi poi dovrò alzarmi anche prima. Devo passare dalla banca per il bonifico dell’affitto. Devo chiedere anche una riduzione della rata di prelievo dell’assicurazione integrativa. Da solo non ce la faccio a sostenere tutte le spese della casa, chiederò una riduzione, sì, il fondo pensione può aspettare.

I corvi sono più vicini. Li sento bene. Proprio oltre le finestre.

Chiudo gli occhi ma non serve a niente. Ho la tachicardia. Devo calmarmi. Non si tratta solo di dormire. Il cuore non può reggere certi sforzi. Dopo venti giorni d’insonnia, le cellule cerebrali iniziano a decomporsi. Si scuriscono e si sfaldano come i petali di un ciclamino, l’ho letto in rete. Potrei iniziare a vaneggiare e delirare. Potrei mettermi a parlare con il napoletano di sotto.

Se solo riuscissi a distrarmi con qualcosa di sereno. Se solo potessi tornare a pensare agli aironi ma qui ci son rimasti solo i corvi.

È qualcosa che ha a che fare con la paura.

Ho abbassato le tapparelle ma sento i loro becchi che picchiano contro il rivestimento esterno.

I corvi con le voci da uomo faranno esplodere i vetri, infileranno gli artigli nei miei capelli, strapperanno la cute per fare in modo che possa sentire meglio tutto quello che hanno da dirmi.

Non ci sono tappi, mascherine o tisane rilassanti. Non ci sono storie, fiabe, libri.

Nel sonno, gli incubi.

Da sveglio, i corvi.

Resta solo la terza scelta.

Vado in cucina, verso una mezza tazza abbondante di camomilla.

Il blister dei Tavor è sul comodino, ne sono rimaste solo quattro ma la confezione di scorta l’ho già comprata. Ne prendo sempre una in più per evitare di restare senza.

Mando giù tutto con la camomilla, ci ho messo troppo zucchero. Lo zucchero è un eccitante, in rete sconsigliano l’assunzione prima di coricarsi.

Fuori fa freddo, un freddo assurdo, ingestibile, insostenibile. Tutto si sta immobilizzando, pare sul punto di cristallizzarsi in un’unica massa liscia, levigata e immobile.

Fuori fa freddo, sì.

Anche dentro.

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