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Victoria Mary Clarke e Shane Mac Gowan. Una pinta con Shane MacGowan

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Molto spesso quando si parla di eroi o antieroi nel mondo della musica, si è soliti utilizzare il termine “fuorilegge” badando poco a calibrarne il senso e attribuendo questa specie di “status” (inutile negarlo, molto ambito) a chi, in alcune circostanze, può vantare dalla sua soltanto una propensione smodata all’eccesso (di qualsivoglia tipo) e poca, spesso nulla attitudine al reale spirito di sovversione che la parola imporrebbe.

Non è certo il caso del protagonista di questo splendido “Una pinta con Shane MacGowan” -finalmente disponibile anche in Italia grazie a Tsunami Edizioni (339 pp, € 23)-, da ormai quasi quarantacinque anni figura di culto nel panorama della musica alternativa e, forse più di chiunque altro tra i viventi, incarnazione immarcescibile del binomio arte-sregolatezza.

Figlio orgoglioso di un’Irlanda che nelle sue canzoni e nei suoi testi assume spesso i contorni di una Terra Madre dalla quale è impossibile recidere il cordone ombelicale, Shane MacGowan, alle soglie dei sessantacinque anni, può e deve essere considerato un inimitabile “sopravvissuto” a una temperie di vita, creazione ed esuberanza partecipativa a certe irripetibili stagioni musicali e non solo che avrebbe con ogni probabilità spedito all’inferno anche il più resistente dei suoi colleghi. Invece, per un disegno celeste che non può non essere considerato quantomeno imperscrutabile, eccolo ancora tra noi, “primadonna” di queste pagine scoppiettanti e mai manierate, che raccolgono otto lunghe chiacchierate tra lui e sua moglie, Victoria Mary Clarke, da oltre tre decenni al suo fianco e apprezzata giornalista, scrittrice e pittrice, neanche a dirlo irlandese anche lei.

Il risultato?

Un libro avvincente e intimo, sboccato e delicatissimo, dove all’arrembante resoconto di un’esistenza vissuta ben oltre ogni limite e fin dalla più tenera età, si intreccia una panoramica a trecentossentagradi sul MacGowan artista e poeta, sull’uomo e sull’animale da palco, che va a indugiare con una minuzia mai artefatta, con una confidenzialità ruvida e genuina, nelle pieghe più nascoste dei suoi pensieri.

Ecco dunque che al sempre commosso ricordo dell’infanzia selvaggia trascorsa nella verde patria natia, si legano gli echi delle inquiete, scapestrate adolescenza e gioventù londinesi, quando il nostro, prima di affermarsi lui stesso dietro a un microfono, fu personaggio di assoluto spicco e, non di rado, figura-copertina del più sovversivo e iconoclasta tra i movimenti cosiddetti “giovanili”, il Punk, che lo vide imperversare come scheggia impazzita nel biennio 1976-77, quello determinante e mai più eguagliato nell’autenticità dei suoi fasti. In mezzo, una vasta, labirintica aneddotica popolata da figure familiari e conoscenze quasi uscite fuori da un romanzo di fantasia e uno sfrenato susseguirsi di flashback sulle innumerabili avventure-disavventure trascorse tra manicomi, centrali di polizia e bettole di ogni ordine e grado (va da sé, alcolicamente sempre elevatissimo). Non poteva poi mancare una lunga, analitica digressione sull’epopea dei Pogues, il gruppo di cui fu e continua ancora ad essere frontman e simbolo, che ben testimonia quale pericolosa, eccitante esperienza possa essere quella di far parte di una band incapace di risparmiarsi sul palco e lontano da esso in ogni angolo del pianeta. Notevole, ancora, la messa a fuoco della weltanschauung dell’autore di “Fairytale of New York”, che emerge progressivamente e a tutto tondo toccando i temi più disparati, dall’amore per la poesia di Behan al contrastato rapporto con la Fede, dalle preferenze in ambito strettamente musicale e letterario fino alle penetranti considerazioni sull’industria discografica o sulla storia e sulla politica.

Si arriva, insomma, in fondo a questo volume con la consapevolezza di aver imparato a familiarizzare con un prototipo di uomo, oltre che di artista, davvero unico, e di averlo potuto fare senza aver mai dovuto sottostare ad un’impostazione in qualche modo dogmatica e programmata del narrato, che mantiene invece sempre il tono caldo, naturale e rilassato di un dialogo informale, senza pose e senza ruoli. Sempre umano, molto umano, nel midollo e negli intenti.

Fidatevi: questa è un’opera che non dovreste proprio lasciarvi sfuggire!

Domenico Paris

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