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Vito Benicio Zingales inedito. L’ultima lettera

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Vito Zingales è un poeta. Ma è di più. Non saprei come definirlo. Spesso gioca con le parole per nascondere il suo sentire aperto da troppe ferite per non cercare di nascondersi dietro le parole. Questo inedito è un’altra cosa. È una radiografia, è qualcosa che tutti noi vorremmo dire ma non riusciamo, è la verità.

Tra la gente anime al neon questo è ciò che non avrebbe scritto uno scrittore ma un uomo prima che uno scrittore. Sono parole che abbiamo a lungo cercato.

Stampatele. Non sono una ancora di salvezza ma ciò che tutto ciò che ci circonda vuole dirci. Non è un romanzo, è qualcosa che travalica.

E un barone rampante come Vito Zingales non poteva che scendere dall’albero – dove gli intellettuali parlano – per porci la mano.

Gian Paolo Serino

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L’ultima lettera

Come sai, ho risolto il mio trasloco. Un’avventura nevrotica, agli estremi di quelle ambite certezze che saprebbero l’uomo in viaggio. Ho smesso l’inconfutabile, tra Dio e i bravi ragazzi del quartiere. La latitudine emotiva puoi immaginarla in quell’Everest del terrore che ogni uomo prova quando è l’inferno a cercargli il cuore. Il freddo, quindi, ma incandescente. Mi sono messo di fronte e, rinnovandomi nella pazienza, ho provveduto ad imballare con dovizia lo strettamente necessario. Ho scartato quel genere di cose che credevo avesse a che fare con la mia possibilità di restare al mondo. Ho destinato al macero le cose che mi legavano a quella declatoria sulla felicità. Al tormento, invece, ho vietato l’accesso, soprattutto alle cose che dal futuro giungevano per esaltare la giurisprudenza della invincibilità. Felicità e paradiso: l’una e l’altro, concluso il dramma, hanno svelato ai nostri occhi la quantità inverosimile di menzogne con cui ci si obbligava a permanere secondo la farmacologia dello scopo. Ho riempito chissà quante scatole: attese, speranze, desideri, congegni indispensabili a riconoscerci presenti. Avremmo dovuto capire che la fortuna non moltiplica in eterno i suoi effetti e chi detiene e gestisce il banco possiede una competenza e un potere infallibili da non essere censurati da alcun giocatore al mondo. In questi giorni, in tutti i luoghi, tra la crudeltà e la ferocia di una vita che è approssimata distante, e mai cercato accanto, la veggenza di ieri abita gli occhi di ogni assenza. Senza nostalgia alcuna, ho lasciato da parte il superfluo, liberando la pelle e lo spirito dalle ossessioni dell’essere contigui agli intestini del possesso. Mille e più cose che obbligavano a doppiare quel continente di consensi dovuti al terrore del non spuntarla. Alla sopravvivenza, oggi, basta poco. Cibo, acqua, piccoli espedienti per scaltrire la permanenza, ma quel genere di fanali che aiutano a fendere le ragioni dell’oscurità. Forse, avremmo dovuto intuirlo nella vivenza. E come per le apparenze, ho preferito risolvere la vita benedicendo le filosofie legate agli esercizi dell’incarto. E dagli incastri del torpore emergeva l’indifendibile. Dalla fisica della colpa alla pedagogia del castigo. Ho lasciato che il viaggio, dalle periferie degli impulsi alle ragioni della rivincita, doppiasse quella sorta di mirabolante ferrovia che al mondo appare come unica deriva occorrente. Così ho vincolato il rimpianto al maturare del rassegnarsi, smarrendo il rimorso tra le terre che alimentano lo sbaglio. Le soste, però, esaltano i sintomi. Gli allarmi, infatti, illustrano quella parte d’ombra che è accessibile solo a chi nutre la rinunzia. Poi, come per il succedersi dei dubbi, che il viandante sa tenere a ricavo, ci si avvia dentro i viaggi che corrodono le coscienze. Ed è lì, dopo il rinnovo per lo scarto, quel farsi leggero. 

Da giorni ho esaurito tutti gli antichi convincimenti. Concluse le parzialità del viaggio, ho compensato la catastrofe della odierna meta, con quelle negligenze che prima del nostro tempo declinavano il mondo secondo gli slanci sovversivi di un Pindaro militante. Ad esaltare la vita, a quel tempo, era il disordine sentimentale: quel modo non definito di considerare le bontà della terra. Un modo cannibale di amare il mondo.Un modo.Nessuno, tra noi, e in ragione di quella logica estetica e di quella morale centripeta diffuse tra le metropoli delle convinzioni, avvicinava la deriva di quei pazzi argomenti. Tutto era strepitoso, invece. Moderno. Più che allettante, era doveroso, per quei “mistici vulnerabili”, riverire quel genere di ammiccante altare. Ma i nemici da combattere erano dentro lo stesso “conclave”. Col tempo, abbiamo dimenticato le basilari desinenze. Fratello, sorriderai a questo, ma ho diluito la nuova solitudine giustappunto con quelle trascurabili felicità. Certo, risulterà claustrofobico, ma, con quel poco racimolato in questi giorni, mi convinco oltremodo che la sconsideratezza anarchica di quei gesti risolvono adesso i dilemmi di quella strana felicità. Mi compio da me. A casa. 

Ho trovato dimora, vicino quello che, inimitabile, era il muscolo dominante della città. Dispensa e mobilio ancora intatti. Alle pareti, nessun segno. 

Il fitto avrebbe dovuto essere elevatissimo, vista la quadratura della casa e di sicuro avrebbe pesato sulla incorruttibile classifica dei miei debiti. Il terrore, all’inizio, era alla notte. Ma ho risolto con una stringente consapevolezza: la causa dell’insonnia non è nella deficienza del silenzio, ma negli eccessi del ricordo. D’altronde possiedo ancora i profitti di quel mio “scostarmi sentimentale” e la morte che appressa il quotidiano mi giunge attutita. Da lontano, quasi. Qui, tutti hanno lasciato tutto. Non conosco la tua sorte. Il mondo, là fuori, torna attutito ai frangenti tufigni del tentarsi invincibile e da lì colgo solo quella debole eco che, deplorevole, lavora di punzecchio, ma non di lama. Come incattiviti per la atroce susseguenza, ancora inebetiti dal terrore, per le strade ancora si lavora di sottosuolo. E quando, per la sferza delle restrizioni, tra delazione e lamento, lo sbarramento imposto cede la trincea, non mi resta che risalire Vivaldi. Così, impedisco di mescolare quel “sovrabbondante pressapoco” con questa mistica del necessario. Alla fine, i privilegi della solità, respingendo tentativi e affondi più che maldestri, pare illuminino per il disprezzo che si deve e con quel taglio così profondo da rendere ingovernabile il morbo che accade agli scaltri e agli imbecilli. È poco, ma basta. Risulta da una forzatura, ma la “spietatezza di questo sottrarre” è pari alle liberanti oscenità dell’oltraggio. 

Cos’è, oggi? La fame, su tutto. La meschinità e l’ignoranza, poi. Da navata a transetto, come per quella chiesa oltremodo prudente, tra sacerdoti e osservanti, l’aratro della fede muove solo per i membri del consesso e per l’ottenimento della coccarda del buon cristiano. Talvolta, cedo ai criteri della rabbia, ma per delegittimare il mio ricordo contumace: dal contagio ne sono uscito, ma giudicato untore, per un un rigurgito di troppo, torno al perimetro della mia prigione morale, ai solstizi della differenza. Da qui, dove non ostenta questa particolare “pochezza”, mi stringo alla fede della perdita. Così elevo un osanna, o una prece, alla genealogia del frattempo, liquidando il desiderio di esistere una vita più che ferinamente debordante. In fondo, è la mia messa santa e ne governo l’accesso all’ostensorio secondo le candidature che nani e Divinità contabilizzano ai miei interessi. Sorvolo sull’encomio del sottrarre, ma sottolineo le pertinenze dell’evocare: mi supera la malinconia e più di quell’enfisema estetico annidato tra i polmoni di questa città irrimediabile. Dubito che possa rendersi palese una legittima forza ordinatrice, talmente sono forti i convincimenti dei più all’ingrasso, ma a questa bulimia si censura il passo, testimoniando i carteggi di quella necessità al disprezzo. Lo riterrai sconnesso, al limite della superbia, quasi … ma al godibile disimpegno morale, preferisco la morte sociale dello spirito. La scena, e lo sai fin troppo bene, è per quel genere d’azzardo che impegna genealogie di intendimenti muscolosi e tanto da accreditare l’uomo alle opinioni di un dio sempre più carnivoro. I passaporti per il paradiso possiedono, lì, validità variabili e, al pedaggio, la consuetudine corrotta richiede oboli da liquidare alla sbarra: tra scienziologi, politicomani e sermonisti, una prolissi circense equipaggiata all’urto dell’indecenza e tutta tesa agli obblighi dello scandalo per le platee paganti. 

La cortesia del disprezzo, così mi piace tenerla al tatto.

Possiedo un obbligo e ogni giorno, al farsi sera, con quella gioia cannibale, mi ricomincia la vita. Malgrado gli oneri del sopravvissuto, ti passo le vicissitudini della rinunzia, con la rinvigorita speranza che anche tu, nel “trasloco”, possa rimediare il solco per la salvante eventualità.

Vito Benicio Zingales

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