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Anna Maria Ortese. L'Iguana

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Come vivremo in Dio?

Terribile cosa, idea che fa sudare sangue all’anima, il pensare al completo annichilimento, e cosa ancora più terribile il pensare che dovrai essere per sempre tu, proprio tu, te stesso, senza poter cessare di esserlo, condannato all’eternità di te stesso. O la nostra morte sarà seme di un soggetto celeste? Saremo larve di farfalle celesti? semi di fiori eterni? E la farfalla ricorda quando è stata larva? e il fiore ricorda il seme?

(Miguel de Unamuno, Trattato dell’amore di Dio)

“Come tu sai, Lettore, ogni anno, quando è primavera, i Milanesi partono per il mondo in cerca di terre da comprare”. Anche don Carlo Ludovico Aleardo di Grees, dei Duchi di Estremadura-Aleardi, e conte di Milano, detto Daddo, salpa per trovare un’isola dove costruire “ville e circoli nautici per la buona società estiva di Milano”. Trentenne dalla vaga idealità, dall’intelligenza non troppo brillante, ma animato da una certa “allegria cristiana, che lo faceva indifferente, in fondo, a tutti gli averi, come se il senso delle cose fosse un altro”, Daddo sbarca su Ocaña, isola non segnata sulle carte, dove vive don Ilario Jimenez dei Marchesi di Segovia, conte di Guzman, insieme a due zotici fratellastri e a una vecchia serva che si rivela, a un secondo sguardo, una giovane iguana trasformata in governante di una casa ormai fatiscente. Don Ilario, ultimo rampollo di una casata decaduta, giovanissimo e assai modesto letterato, deve piegarsi a un matrimonio d’interesse con una ricca parvenue americana. Daddo, attratto per natura dal patimento degli oppressi, alterna il suo affetto di ingenuo tra Ilario e l’Iguanuccia e resta così prigioniero dell’incantamento che le miserie dell’isola esercitano sulla sua anima.

Questa, in estrema (e vergognosa) sintesi, la trama de L’Iguana, romanzo di Anna Maria Ortese dalla complessa gestazione editoriale, che vide la luce per Vallecchi nel 1965.

L’immagine dell’isola, come spesso succede, porta in sé quella del viaggio, un viaggio personalissimo, intimo, in cui le condizioni della perdita e della caduta sono essenziali.

“Queste isole sono illusorie”, scriveva Melville nel primo bozzetto del reportage sulle Encantadas- le moderne Galapagos-, “chi il piè vi pose anche una volta sola/ più non lo ritrarrà; perennemente/ vagare deve, nell’incerto dubbio”. Al fondo dell’esperienza del viaggio vi è quindi una riflessione sul paradosso, un paradosso che intima di approdare su una terra per eternamente vagarvi o, come dice Ortese: “Sentì che il suo viaggiare era stato immobilità, e ora, nell’immobilità, cominciava il vero viaggiare. Sentì poi che questi viaggi sono sogni, e le iguane ammonimenti. Che non ci sono iguane, ma solo travestimenti, ideati dall’uomo allo scopo di opprimere il suo simile e mantenuti da una terribile società”. Il viaggio di Ortese porta dunque all’illuminazione del corto circuito e scopre le perverse ruote dentate della società, gli ingranaggi del Male del mondo a cui basterebbero “le lacrime di una sola Iguana perduta in un’isola atlantica, perché appaia chiara la malvagità dell’universo”, scrive Pietro Citati nella postfazione del romanzo. Si pensi a Tifone di Joseph Conrad dove il Nan-Shan, la nave capitanata da MacWhirr, è sbattuta furiosamente dalle onde e dal vento terribile che fanno dire al narratore: “C’era dell’odio nel modo in cui veniva maltrattata, ferocia in quei colpi che le si abbattevano addosso”.

Il Male è contenuto, per Ortese, negli occhi ciechi di una società famelica per cui la vita è solo merce, “trionfo dell’utile, […] il segreto dei cieli non più formatore di cupole, ma di mercati. […] Asservimento di ogni atomo di natura” (A.M.Ortese, Da Moby Dick all’Orsa bianca, Adelphi, 2011); ed è conosciuto, il Male, in maniera annichilente, da colui che prima fu tenuto in palmo di mano e poi scacciato: solo lui conosce cosa sia quest’inferno che si colloca nel regno del meno, del freddo, della solitudine; solo l’Iguana può comprendere, con terrore, cosa significa essere amata da don Ilario (amata, forse, di un amore indecente- così ha risolto il marchese allontanandola) e poi svilita, accusata, pensata- a conti fatti, probabilmente, cioè per interesse- come incarnazione del demonio. Che è un po’ quel che succede a Calibano, creatura primitiva dell’isola de La Tempesta shakespeariana, cresciuto da Prospero come figlio e poi ridotto in catene da chi gli fu padre, ritenuto mostruoso, in fondo, perché seme di strega e portatore di altro seme. Entrambi, l’Iguana e Calibano, divenuti emanazioni del maligno nel comune destino di reietti: l’innocenza del fanciullo che sfocia nella bestia.

Anche ne L’Iguana vi è una tempesta, ma quella che in Shakespeare è un inganno dei sensi, opera di magia di Prospero- demiurgo che mette in moto l’azione che porta al perdono-, ma che in realtà fa solo tremare l’acqua contenuta in un bicchiere; quella che in Conrad è espressione dell’odio e della ferocia dell’universo; in Ortese è il vacillare di una mente, il suo delirio derivante dallo sconvolgimento morale dell’individuo che avverte il giusto e non sa decidersi, e quando lo fa è tardi, troppo tardi per tutti.

Nel finale onirico il presentimento della morte dell’Iguana porta Daddo a uno stato allucinatorio che lo guida fino al pozzo al cui fondo crede di scorgere il corpo della servetta. E lui vi si getta dentro per salvarla. Allora, quel suo viaggio verticale nel pozzo gli si presenta come una sciarada, una questione inestricabile, che sostituisce il corpo dell’Iguanuccia (tanto amata perché derelitta) con quello di Dio, un corpo agonizzante che, però, prende le sembianze di una farfalla: Dio non è morto, non muore, si moltipla nella figura della Trinità (le tre farfalle che volano vicino all’Iguana), anche se al puro di cuore non viene risparmiata la vita, perché Daddo, che è l’innocente accusato di deicidio, si sacrifica con un sorriso che turba tutti e li rende partecipi “di non so quale altezza di questo mondo, che pure si crede merce o altro”.

È una gnosi quella di Anna Maria Ortese? Quello che è certo è che qui non vi è una figura di demiurgo, non c’è Prospero, né la “mano immensa” di Conrad che si introduce nel formicaio del mondo per sbattere le teste degli uomini e farle andare in direzioni inconcepibili; non vi è la terribile fissità dell’occhio di Dio, come in Suddenly Last Summer di Tennessee Williams, dove Sebastian va in cerca del volto dell’Altissimo dopo aver letto Le Encantadas di Melville e lo trova nel cielo nero di migliaia di falchi che aspettano e volteggiano per straziare con i rostri il tenero ventre delle tartarughe appena nate e già in corsa per tentare la disperata via del mare; Sebastian, convinto che tutti siamo preda di una natura divoratrice, dopo lo spettacolo raccapricciante in cui cielo e sabbia pullulano di vita ingorda, dice alla madre: “Ora ho visto. Ho visto Dio!”.

Ne L’Iguana di Ortese c’è, però, una speranza, anche se lontana e sofferta, che è testimonianza e scrittura. Daddo si precipaita nel pozzo, laggiù (quaggiù?), come una strana figura cristica che, inconsapevolmente, si sacrifica per permettere a Dio di non morire e di moltiplicarsi, triplicarsi. Daddo partecipa al dolore del mondo e se ne fa carico (è la sua missione) perché qualcuno (gli oppressi, gli umili) possa testimoniare di quella vita che non deve essere perduta e che si può invocare con una preghiera o una semplice poesia (ciò che fanno gli incolti fratellastri di Ilario per onorare la memoria di Daddo e per amore dell’Iguana).

D’altra parte per Daddo è proprio così, il male esiste “non personalizzato, per lo meno, non intenzionale; ma solo come un momento del divenire, il momento, per così dire, pratico”, che è, forse, il male della ragione, il grande Enigma che di tutto chiede il perché e a nulla arriva, di cui parla Ortese nell’articolo intitolato Cristo e il tempo, contenuto in Da Moby Dick all’Orsa bianca, e che arriva solo al vuoto; ed è contrapposto, quest’enigma, all’altro grande enigma che fu Gesù, donatore di vita “sognata”, perché inimmaginabile e imperitura, un Cristo che “mentre è oscuro, è charo e parla con la voce stessa dei nostri morti, dei nostri amati, dei nostri cari giorni passati”.

Non vi è risposta consolatoria, in questo romanzo, ma un ragionare inquieto, e sempre tragico, che rimanda intatte le domande di Unamuno (come afferma Ortese nelle ultimissime righe del libro), insieme alla certezza che la ragione deve far posto alle “ragioni del cuore” perché l’essere, che sente e soffre, è sempre vivo, incarnato e affamato di eternità.

[Anna Maria Ortese, L’Iguana, Adelphi, 2003, 204 pp.]

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