Come un disco in vinile, Uccidi quei mostri di Jeff Jackson – in uscita da Sem, con la traduzione di Seba Pezzani – si legge secondo due versi: il lato A – Il mio periodo oscuro – e il lato B – Kill City, come il titolo di un album di Iggy Pop. Due incipit e due flussi narrativi da seguire a seconda del punto di vista: quello degli assassini e quello delle vittime.
Siamo nel 2018, e gli Stati Uniti sono sconvolti da una ondata di violenza senza precedenti: tra la folla presente ai concerti si aggirano killer pronti a uccidere le rockstar sul palco, mentre si stanno esibendo. In Uccidi quei mostri risuona l’invito a uccidere i propri idoli. È quello che fa un ragazzo con il cappello blu, che apre le danze sparando ai componenti di una band in un locale, sprofondando immediatamente il lettore in quella che nel racconto è indicata come un’epidemia. I protagonisti sono, di volta in volta, giovani appassionati di musica o aspiranti musicisti a loro volta, frequentatori di locali punk-rock, sullo sfondo di una città caotica e distopica in filigrana. L’epidemia si diffonde con rapidità vertiginosa, e i serial killer musicali fanno la loro comparsa ovunque negli State, utilizzando armi diverse ma seguendo un’unica procedura: entrare in un locale e iniziare a uccidere. Mentre Jackson si inventa questo espediente narrativo, punta l’indice su una scena e una produzione musicale sempre più commerciale, banale e priva di qualsiasi vera attrattiva, un prodotto come un altro, da ingerire ed espellere rapidamente. Il profilo dei killer, quindi, assume una dimensione diversa e, un poco alla volta, rimanda l’idea di individui che, in qualche modo, fanno riferimento a un ideale, sono il rigurgito di un’aspirazione, che rispondono al banale e qualitativamente deprimente eccesso di prodotto e di “informazioni” eliminandoli radicalmente. La pistola puntata sul palco assume la dimensione di un’arma contro la distrazione di massa. Non a caso, Jackon dissemina il libro di forme “alternative” al rumore di fondo della musica commerciale e commercializzata: una ninnananna, il canto degli uccelli, una lamentazione funebre, la musica intesa in senso rituale. Il percorso di lettura di Uccidi quei mostri si impone attraverso i due flussi narrativi, che si differenziano anche per l’uso della seconda e terza persona, e grazie ai continui inserti, alle aggiunte, alle “note di copertina” che si susseguono e articolano il testo con un risultato inaspettato ed efficacissimo.
Paolo Melissi
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Lato A
Il mio periodo oscuro
Segui la pista dei biglietti inutilizzati. Sono sparpagliati davanti alle vetrine dei negozi della città con le serrande abbassate, sotto la luce di qualche raro lampione, un percorso di carta gialla che si snoda sul marciapiede. Sono tutti per lo spettacolo di stasera.
Il ragazzo dal berretto azzurro ne raccoglie uno e continua a camminare. Annuisce leggendo il nome della band stampato sul davanti. A un tratto arriva a un’anonima porta metallica. Nulla fa pensare che si tratti dell’ingresso del locale, ma il ragazzo gira la maniglia e la pesante porta si apre.
All’interno dell’ambiente buio, l’odore di antisettico misto a un residuo di birra stantia gli punge le narici.
Il ragazzo dal berretto azzurro allunga il biglietto, ma non c’è nessuno a ritirarglielo. Si ritrova in una stanza con le pareti di cemento a vista che sembra una cella frigorifera riconvertita. L’unico abbellimento è rappresentato da un lampadario di ferro battuto e da un lungo arazzo appeso al muro, decorato con immagini di rondini che volano in cerchio e di fuochi rituali. Il locale sembra vuoto ma, nell’avvicinarsi al palco, il ragazzo nota alcuni spettatori vestiti di nero. Sono radunati lungo le pareti della stanza, facce ceree che sbirciano dall’oscurità.
Sul fondo due uomini barbuti dalle lunghe vesti cremisi sono in piedi davanti a una batteria di sequencer e sintetizzatori, da cui proviene un ritmo assordante, un lamento acuto che esce a singhiozzo dagli altoparlanti. La band impreca a bassa voce contro l’invisibile tecnico del suono e biascica qualche scusa al pubblico distratto. Ricomincia da capo varie volte, e non riesce mai a proseguire per più di qualche battuta senza che qualcosa vada storto. Finalmente la canzone esplode dall’impianto audio e il suono ossessivo si intensifica, rimbalzando sulle pareti di cemento.
Le luci del palco si fanno più luminose. Le frequenze acute aumentano di volume. L’esiguo pubblico pare stordito dall’aggressività del suono. Mentre i musicisti barbuti intonano una melodia senza parole, il ragazzo dal berretto azzurro ruota la testa e ondeggia le braccia nell’aria. È una danza impacciata oppure un momento di possessione spirituale o, magari, uno sfogo di energia nervosa. L’esibizione termina bruscamente così come è iniziata. Il ragazzo estrae una pistola dalla parte posteriore dei jeans, prende la mira e fa fuoco.
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07 ottobre 2020