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Antonio Lorenzo Falbo. Il senso delle stelle

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Conservo gelosamente “Luce istantanea”, un libretto di polaroid e pensieri di Tarkovskij che scovai casualmente anni addietro negli scaffali polverosi di una libreria bolognese. Era Agosto, la città deserta, canicola e pulviscoli traslati dalla luce di una giornata al suo termine, nel mentre, quegli appunti sparsi, frammenti di ricordi e sensazioni legate all’infanzia di un autore lontanissimo nel tempo, nello spazio eppure improvvisamente vicino grazie al volume, intimo, in quel suo semplice esporsi, attraverso gli scatti dei luoghi cari impressi nella sua memoria. Un giardino spoglio, una tavola imbandita, il riflesso di una luce smorta attraverso tendaggi logori, tutto appare traslato in quelle pagine, nel colore uniforme di un ricordo dai contorni universali.

Ho quelle polaroid fissate nella testa mentre rileggo alcuni passaggi de Il senso delle stelle, opera ultima di Antonio Lorenzo Falbo, edito per la collana Vertigo di Funambolo edizioni, approdo più che adeguato per un romanzo intriso di echi e vibrazioni stranianti che rimandano al principio di eredità familiare della psicogenealogia di Jodorowsky.

Stelle, non solo nel titolo, dunque, stelle a cui guardare nel mezzo di un cielo troppo scuro, in cerca di una qualche redenzione da quella figura paterna che nel ricordo si cristallizza in un bolo di violenza, il cui rigurgito non s’è quietato neppure alla dipartita.

Ecco il padre e i suoi peccati a ritornare, nel circolo vizioso letterario della disfatta umana, ecco il peso e le cicatrici lasciate sui corpicini dei fratelli che non hanno saputo, potuto, far famiglia e barriera per frapporsi agli schiaffi e le cinghiate. I ricordi buoni quindi si contano sulle dita d’una mano, le tensioni invece, i timori, le inquietudini di quella convivenza forzata con una gravitas patriarcale di cicatrici e affondi che neppure il cambio generazionale è stato in grado di cancellare, negli anni si fanno zavorra, mostro ingombrante in un armadio che non smette di mangiarsi la stanza tutta.

In questo sta il basamento dell’intera struttura narrativa di Falbo, l’incudine di un passato incapace di confinarsi al supplizio del ricordo. Le colpe dei padri ricadono sui figli, gli errori sono destinati a ripetersi, nulla di nuovo in questo, sia chiaro ma è nell’approccio trasversale dell’autore che si evince un tributo ai generi ben conosciuti e una capacità autoriale nel trascenderli per dar forma a uno sguardo nuovo.

Il ritorno di Filippo e Tobia al perduto nido familiare, due fratelli le cui vite, divise fino a oggi, ne hanno imposto percorsi e direzioni opposte. Filippo, vedovo di consorte, improvvisato padre di Cischi, un ragazzino introspettivo i cui silenzi racchiudono uno sguardo ben più consapevole dei suoi anni. Tobia, alias, l’Ombroso, adone devoto all’eroina, uno sparviero che ha dedicato la sua esistenza al culto del corpo e del proprio ego.

Si diceva appunto, due personalità agli estremi, di colpo richiamati alla masseria di famiglia per decidere le questioni dell’inaspettato lascito paterno.

Da qui, la prospettiva degli eredi, quel ritorno al nido domestico pascoliano che ne risveglia ricordi, immagini, presenze.

Limitiamoci a queste ultime, non si pensi erroneamente a un romanzo di spiriti o case infestate: gli scricchiolii e le incursioni notturne sono presenti ma la figura dell’ultraterreno in queste pagine è indagata in modo assai più sottile. Scopo dell’autore non è quello di spaventarci, semmai inquietare.

Presenza”, da intendersi come una commistione di energie e forze confluenti in un unico atomo che rischia di implodere nella figura di Filippo, ingenuo tramite a rivestire i panni scomodi di quel padre ostracizzato che, attraverso i timori, le insicurezze e il corpo di quest’ultimo, pare essersi guadagnato una seconda esistenza.

In questo gioco delle attese, il contesto non si limita a mero scenario: la proprietà pare infatti dotata di un respiro proprio, così come la vegetazione circostante e le poche figure umane che vi gravitano all’interno. Si avverte un senso di sospensione sottintesa, pendolo ipnotico che accompagna e scandisce l’evolversi di questa vicenda che non rinuncia a spargere dubbi, depistare, mantenendo salda l’attenzione, voltando specchi, ribaltando le prospettive, in attesa del disvelamento finale.

In balìa di un moto claudicante si adagia un romanzo di ostica classificazione, un testo dalla prosa salda al terreno ma ambizioni libere di sconfinare nelle visioni olistiche di una pellicola erosa dal tempo. In questo, ritorna la suggestione iniziale, quella polaroid di luce istantanea, dai contorni eterei, impalpabili, uno stimolo a raccontare altro, per concezione e sostanza.

Stefano Bonazzi

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Il senso delle stelle

Antonio Lorenzo Falbo

Funambolo edizioni

17,00 euro — 296 pagine

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