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Antonio Moresco anteprima. Il finimondo

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Escono a distanza di quattro mesi dalla precedente tornata i quattro nuovi titoli di Edizioni Tetra-.

Tutti in contemporanea il 4 novembre, ovvero oggi.

Ipotizzare qualcosa come una piccola cabala non è peregrino.

Perché anche il termine tetra, proveniente dal greco, si apparenta al significato di quattro, e sempre lo stesso numero si rintraccia nel prezzo.

Ognuno dei quattro libretti distribuiti nelle librerie costa infatti 4 euro.

Riassumendo. I quattro libretti contengono ognuno un racconto inedito, opera di quattro narratori mai perfettamente allineati al mainstream delle patrie lettere.

Di questi libretti, ne escono quattro ogni quattro mesi – in un agile formato quadrato (ricorda la shell dei cd), che starebbe nella tasca di un operaio come disse Roberto Roversi. Il costo di ognuno è di 4 euro.

La casa editrice che li pubblica è la viterbese Edizioni Tetra-, nata da una visione editoriale di Danilo Bultrini e Luca Verduchi.

Poi si potrebbe obiettare che è la terza uscita e che novembre è l’undicesimo mese dell’anno, ma l’idea di una cabala a noi misteriosa, permane.

Di veramente importante c’è però da notare come, anche per questa terza uscita, lo spazio narrativo in cui si muovono i racconti sia veramente ampio, in senso di età degli autori e in senso squisitamente stilistico.

Si va dalla prosa in cui il ritmo ha del parossistico – come mostra Giorgia Tribuiani nel suo Superstar, ambientato nel mondo del wrestling – a La piccola gente – racconto imprendibilmente metanarrativo di Alfredo Palomba. Si va dalla densa visionarietà che costituisce l’architettura de I numeri sono buonissimi, di Valeria Viganò, alla prosa fra grottesco e annichilimento di Antonio Moresco ne Il finimondo.

Di tutti i quattro titoli, l’unico a saldare nella narrazione materiali editi con inediti, è proprio quest’ultimo.

Alcuni capitoli de Il finimondo erano già comparsi sul quotidiano “Domani”, qui entrano a far parte della narrazione complessiva proposta dal narratore mantovano dopo una ampia e ragionata revisione.

Nel centinaio di pagine che costituiscono Il finimondo, si riflette via metafora – in modo diremmo “disperante” – dell’avvenuto sfacelo della nostra società, per gli aspetti politici e per quelli economici su cui è basata. Uno sfacelo che i vivi non percepiscono ancora come definitivo.

Nel testo Moresco sottintende, facendo parlare personaggi di realtà e di fantasia quali Hitler, Pinocchio, Dante, Superman, Pasolini e se stesso, un crollo generalizzato di tutta la società capitalistica e neoliberista di stampo Occidentale. Quindi non solo di quella italiana, bensì di quella che prolifera praticamente ovunque nel mondo.

Ne consegue che il racconto “a tappe”, a “incontri” de Il finimondo parla solo di questo, risultando via via sempre più claustrofobico e senza via di uscita.

Il pretesto narrativo è invece quanto di più smaccatamente vicino alla letteratura fantastica in odore di Kafka si possa ipotizzare.

L’autore Moresco viene cooptato da Salsa, capo-cultura di un nuovo quotidiano, “Il finimondo”.

In redazione “tutti” lo vorrebbero come inviato in esclusiva dalla sterminata città dei morti. Salsa si fa portavoce di questo desiderio e spinge Moresco ad accettare l’incarico.

Relativamente riluttante, il narratore finisce per accettare l’incarico.

Da qui il suo andare in un luogo – senza praticamente tornare indietro – dove ogni abitante è quanto già era da vivo, né più né meno.

Relativamente protetto da una sorta di generico anonimato, resta immutato nella morale.

Non si parla perciò di “ravvedimento” per il male commesso o per gli errori fatti. Il lettore viene al più messo a conoscenza di una contorta, a volte anche opinabile, evoluzione della consapevolezza. Se dovuta al tempo passato nella città dei morti o per altro, Moresco tende a non dirlo apertamente.

La storia si snoda fra dialoghi e monologhi, dove si alternano una ironia volutamente grossolana (capace di scoperchiare la sentina di orrori sopra cui poggia) con un ostinato riflettere sul nostro presente-futuro ponendolo sotto una campana di irredimibile ineluttabilità.

Nessuno degli incontri fatti dal personaggio Moresco ne è immune, nessuno può fare a meno di confrontarsi con le informazioni che arrivano attraverso le giornaliere, massicce ondate di nuovi morti. Nessuno può non rendersi conto di come la situazione sia precipitata sempre più.

Come volesse tenere ben fermo il timone di questo castello narrativo sulla rotta decisa, la voce narrante de Il finimondo resta sempre appannaggio di Moresco, anche quando a parlare sono altri. Il che rende monolitico il ragionamento che da subito viene a galla dalle pagine.

Alla fine il Moresco de Il finimondo, pronto a farsi reporter dantesco nel suo camminare fra i morti, a esserlo lui stesso, un morto, scappa di immaginarselo come il fantasma di Dostoevskij che Guido Piovene inserisce ne Le stelle fredde.

Lì il narratore russo torna per testimoniare il cosa accade dopo il trapasso, qui un narratore si muove nell’al di là dei defunti per documentare con voce univoca il crollo inavvertito (ma parallelamente cercato e voluto) della nostra società, quella dei presunti vivi.

Sergio Rotino

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Mi guardo attorno.

«Hai visto che le borgate ci sono ancora?» provo di nuovo a dire, per stemperare un po’ l’emozione. «Non sono scomparse, si sono riprodotte in un altro modo…».

«Sì, è vero» mi risponde. «Mi ero sbagliato. Io, come gran parte del pensiero critico del mio tempo, ancora bloccato su ideologie economiche e storicistiche precedenti e rovesciate di segno, avevo immaginato l’avvento di un ottundente benessere che avrebbe cancellato la bellezza e la forza delle differenze antropologiche e di un vagheggiato tipo umano preindustriale e antico, l’avvento di una classe media e di una piccola borghesia che si sarebbero estese attraverso il benessere diffuso e l’omologazione culturale e televisiva creando un nuovo fascismo soft. Invece la forbice economica e sociale si sta di nuovo allargando, ci sono persone sempre più ricche da una parte e sempre più povere e addirittura miserabili dall’altra, e il fascismo che vediamo crescere e dilagare sotto diversi travestimenti e forme non è per niente soft. E poi ci sono ondate di miserabili e di migranti che si spostano attraverso la città dei vivi e dalla città dei vivi a quella dei morti, ingrossate da guerre, fame, pandemie… creando sempre nuove sacche di miseria e disperazione attorno alla città dei vivi e anche a quella dei morti…».

Si interrompe.

«Sediamoci qui» mi dice d’un tratto, perché siamo ancora in piedi, impalati.

Ci sediamo uno vicino all’altro su un gradino di cemento che c’è al bordo del campetto.

«Però non ti eri sbagliato su tante altre cose…» gli dico.

«Non mi ero sbagliato sulla natura del nostro Paese, su quello che aveva dentro la pancia e che vedevo bene quando ero in morte dentro la vita e che vedo ancora meglio adesso che sono in vita dentro la morte e so anche quello che è successo dopo. Un Paese cinico e corrotto fino al midollo, dove viene accettato e ritenuto normale ciò che invece dovrebbe creare indignazione e scandalo, che non ha la forza della libertà condivisa e che per questo è sempre pronto a crearsi nuovi idoli e uomini della provvidenza, salvo poi distruggerli per crearne di nuovi, dove le strutture di potere sono nascoste e la gente può vedere solo le gesta delle marionette che di volta in volta vengono mandate avanti, e che si regge solo perché è anche abitato da persone meravigliose che tengono in piedi tutto questo castello marcio alzandosi alle sei del mattino per andare a lavorare nelle fabbriche, negli ospedali, nelle scuole… Un Paese che si è inventato la commedia all’italiana per esibire i propri difetti e ridersi addosso ma che sotto quella maschera bonaria e autoironica è un Paese violento, criminale, dove il potere è shakespeariano, dove le verità grosse non vengono mai a galla o mai fino in fondo, neanche a distanza di tempo: tentativi di colpi di Stato, assassinii, stragi, Mattei, Calvi, Piazza Fontana, Brescia, Italicus, Ustica… che è andato avanti a colpi di esecuzioni mirate pur di occultare le sue terribili verità. Ne so qualcosa io, che mi ero gettato allo sbaraglio, sui giornali, nei film, nell’ultimo libro dove parlavo del nostro Paese perduto e delle sue figure criminali che muovevano i fili, degli Argonauti, del vello d’oro di allora e di adesso…».

«Mi ricordo ancora l’orrore che ho provato quando ho visto sui giornali le fotografie del massacro cui se

i stato sottoposto, il tuo corpo dalle ossa spezzate, il tuo volto sfigurato e ridotto a un grumo di sangue… E poi, fin dall’inizio, indizi lasciati cadere, testimonianze che non sono state valorizzate

, inchieste bloccate… Ma che Paese è questo, in cui può succedere una cosa simile e poi tutto viene insabbiato? L’assassinio e il linciaggio di un poeta, un’esecuzione compiuta da molti, più primitiva e feroce ancora di quella di Garcia Lorca…».

«Sono stato attirato in un agguato e poi massacrato…».

«E poi è stato ridotto tutto a una rissa tra froci, ci sono state persino battutine, sarcasmi…».

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