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Brandon Taylor. Gli ultimi americani

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Nato a Prattville, Alabama, trentaquattro anni fa, Brandon Taylor nel 2020 si è rivelato tra le voci più interessanti della letteratura americana dei nostri tempi con il romanzo Real Life – Una Vita Vera –  finito nella shortlist del Booker Prize e del National Book Critics Circle John Leonard Prize. 

Gli Ultimi Americani – con Bollati Boringhieri e la traduzione di Francesca Manfredi – è una raccolta di storie che si legge come un romanzo.

Siamo in pieno Midwest. Iowa City è “quel buco di città, nel mezzo di uno stato nel mezzo di un paese”. In un quartiere poco distante dal centro, un gruppo di studenti universitari segue un seminario di poesia. Il contesto sembrerebbe quello dell’Iowa Writers Workshop, tra le più accreditate accademie di autori americani, riferimento per ragazzi e ragazze che sognano di diventare i nuovi John Cheever e Raymond Carver. Tra questi scopriamo Seamus, aspirante poeta, omosessuale (l’omosessualità è una delle tracce del libro), che si mantiene lavorando in una casa di riposo. Il contrasto tra l’urgenza delle cose pratiche, il tangibile quotidiano e il fuoco sacro dell’arte è l’altro tema affrontato da Taylor. Il seminario frequentato da Seamus ricorda il quartier generale dei realvisceralisti dei Detectivi Selvaggi di Bolaño, una specie di porto franco dove le ambizioni di giovani visionari si scontrano con la ruvidezza della vita reale, mescolandosi a vicende sentimentali o più banalmente sessuali, talvolta brutali, come l’incontro tra Seamus e il rozzo Bret.

L’approccio violento e imprevisto tra i due mi ha riportato all’ultimo Pasolini all’idroscalo di Ostia. Ha ancora senso fare il poeta negli anni Duemila?, si chiede Seamus (I poeti sono amati solo perché non sanno stare al mondo, scrisse Saul Bellow). Dipende. “Esiste un genere di poeta per cui lo scopo di tutto quanto è il prestigio. La poesia stessa è il prestigio: e se nessuno ti vede scrivere una poesia, se nessuno ti vede fare il poeta, allora non sei davvero un poeta”. Il gruppo, dunque. Visto da dentro e osservato da fuori: Ivan, un altro dei personaggi, “era sicuro che i poeti, cosi come i ballerini, andassero tutti a letto insieme. Come se fossero un branco inquieto… L’Iowa era una specie di inverno culturale, in quel senso: erano tutti venuti in quel buco di città, per studiare arte, per affinare se stessi e le proprie idee allo scopo di farne armi perfette, terribili e, nella deprivazione monastica che trovavano lì, si rivolgevano gli uni agli altri. Ogni specie morente è alla ricerca del proprio conforto”. Specie morente. Ecco cosa sono i poeti e gli altri artisti di Brandon Taylor: una specie in via di estinzione “gli ultimi americani”. Ivan è un ex ballerino che va avanti a prestiti studenteschi accumulando debiti su debiti per studiare finanza. Per venirne fuori decide di darsi al porno. Sono le vite precarie di Taylor, ragazzi che faticano nel lavoro e nelle relazioni. Fyodor è un insegnante vegano, detesta il compagno Timo “assassino di animali” perché impiegato in un mattatoio. Bea sopravvive dando lezioni di nuoto. In queste vite non accade nulla, i personaggi di Taylor non fanno: esistono, direbbe Bret Easton Ellis. Lottano tra disuguazianze e nuove opportunità, dolore e desiderio, talento e mediocrità. 

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